Dove corre questa cerva scritta in un bosco scritto?
Ad abbeverarsi a un’acqua scritta
che riflette il suo musetto come carta carbone?
Perché alza la testa, sente forse qualcosa?
Poggiata su esili zampe prese in prestito dalla verità,
da sotto le mie dita rizza le orecchie.
Silenzio – anche questa parola fruscia sulla carta
e scosta
i rami generati dalla parola “bosco”.
Sopra il foglio bianco si preparano al balzo
lettere che possono mettersi male,
un assedio di frasi
che non lasceranno scampo.
In una goccia d’inchiostro c’è una buona scorta
di cacciatori con l’occhio al mirino,
pronti a correr giù per la ripida penna,
a circondar la cerva, a puntare.
Dimenticano che la vita non è qui.
Altre leggi, nero su bianco, vigono qui.
Un batter d’occhio durerà quanto dico io,
si lascerà dividere in piccole eternità
piene di pallottole fermate in volo.
Non una cosa avverrà qui se non voglio.
Senza il mio assenso non cadrà foglia,
né si piegherà stelo sotto il punto del piccolo zoccolo.
C’è dunque un mondo
di cui reggo le sorti indipendenti?
Un tempo che lego con catene di segni?
Un esistere a mio comando incessante?
La gioia di scrivere.
Il potere di perpetuare.
La vendetta d’una mano mortale.
[La gioia di scrivere, di Wislawa Szymborska]
In questa celeberrima poesia, che dà il titolo alla raccolta di poesia della grandissima poetessa polacca (Adelphi, traduzione e cura di Pietro Marchesani, 2009), si celebra la potenza e la felicità che prova uno scrittore mentre crea, mentre dà origine alle sue storie, alle sue poesie. Ma si racconta anche altro.
Silenzio – anche questa parola fruscia sulla carta
e scosta
i rami generati dalla parola “bosco”.
Il verso “e scosta” è composto da sole due parole, seguite da uno spazio bianco lunghissimo.
Il verseggiare poetico ci ha abituato a percepire la poesia contornata da tanto spazio bianco, la mente infatti intuisce subito che una determinata modalità compositiva della pagina scritta è una poesia: secondo la Psicologia della Gestalt noi percepiamo a prima vista e interpretiamo correttamente prima ancora che la mente si sia soffermata a comprendere il significato di quello che stiamo leggendo.
Ma queste due sole parole creano una vera attesa, una pausa potente nello scorrere dei versi.
Trattandosi però di poesia, il lettore implicitamente considera in qualche modo normale che versi più corti di altri lo portino a sospendere la lettura, ricevendone quasi in dono dei preziosi momenti di riflessione e a volte di commozione.
E se invece questo spazio bianco tra lo scritto e nello scritto ce lo donasse la narrativa? Ne ricaveremmo il medesimo significato e senso che nella lettura della parola poetica?
Ma partirò con ordine, analizzando lo spazio bianco all’interno di un libro di narrativa.
Prendo in mano un libro, guardo il titolo, il nome dell’autore, l’immagine di copertina. Attendo a immergermi nella lettura, assaporo istante per istante il momento della felicità, quando i miei occhi, la mia mente e tutto il mio essere precipiteranno nel vortice della storia. Apro il libro. Riga bianca sotto al titolo, uno spazio bianco d’attesa, di suspence, un regalo che l’editore ci fa.
(Quando mi arrivano i testi dagli autori, libri di narrativa, filastrocche, testi per albi illustrati, spesso questo spazio bianco non c’è. L’autore ha fretta di far leggere a me editor la sua storia subito, ha fretta di sapere cosa ne penso, sembra chiedere: Ti è piaciuta? Mi pubblicherai? La mia opera sarà letta dal comitato di redazione? Infatti non è solo una questione di impaginazione in Word, perché al contrario, quegli autori che riflettono sulla propria opera a lungo, e magari l’hanno mandata tanto in giro, la prima cosa che fanno è quella di dilatare lo spazio dell’attesa: autori scaltri che sanno che un editor prima di tutto, e sempre, è un lettore vorace e onnivoro, che vive di storie come altri vivono di cibo. Aumentare l’attesa fa venire l’acquolina… Percepisco questa ansia, la faccio mia, leggo anche io di corsa, cercando un interesse, una novità, una prospettiva di futura vendita mi sorprendo a leggere a video, non voglio fare aspettare troppo l’autore, vivo la sua attesa, la sua emozione. Il libro infine viene pubblicato, ecco che si potrà respirare, ecco la riga bianca, ecco che si potrà entrare nel vivo della narrazione con calma.)
La riga bianca sotto al titolo del Capitolo 1 è un viale largo largo, a volte un viale a doppia corsia, a volte, quando il libro merita una attesa più lunga, soprattutto nei libri di narrativa per adulti, ecco che le righe bianche sono tre, quattro, cinque! Un’autostrada dell’attesa.
Anche nei libri per bambini, la famosa narrativa dai sette anni, lo spazio bianco separa il titolo dall’inizio della narrazione. In questo caso è più un ruscello da scavalcare velocemente, di corsa, come di corsa sono sempre i bambini. Ma i bambini cosa penseranno di questi spazi bianchi? Nei testi di narrativa per i più piccoli in questi spazi bianchi entrano a volte delle piccole illustrazioni: guai al bianco! L’horror vacui è sempre all’orizzonte.
Poi c’è il bianco intorno al testo: nelle edizioni di pregio il bianco fa parte del testo, entra in sintonia con il nero tipografico, lo accoglie, lo avvolge. Regala spazio, respiro. A volte regala un margine per le annotazioni.
Mi sono sempre chiesta che senso avessero, in un pensiero anche di tipo economico, i bordi bianchi: ci sono libri che mantengono alto il respiro con pagine dotate di tanto bianco intorno al testo scritto, altre edizioni, economiche appunto, sono fitte fitte, incalzanti, non regalano tregua. Spesso questo è dovuto al tipo di narrazione: nei gialli, nei polizieschi e negli horror a volte è necessario incalzare il lettore, fargli percepire uno stato d’ansia che possa venire anche da una pagina piena di segni neri che arrivano quasi al bordo.
A volte è una mera questione economica: meno pagine, minor costo del libro.
Case editrici raffinate come Adelphi, per esempio, oppure come Sellerio, pur nel piccolo formato, ci regalano tanto spazio intorno al testo, con un’accurata pulizia compositiva della pagina. Altri editori preferiscono puntare sul formato, sulla copertina cartonata con sovracoperta, come nella collana Supercoralli Einaudi, ma scegliendo carta molto leggera e trasparente e una pagina molto affollata e piena, quasi soffocante.
Lo spazio bianco è sempre ragionato, misurato, valutato dal grafico e dal direttore editoriale: si guarda al numero di pagine, al costo per pagina, alla dimensione finale del libro.
Lo spazio bianco, così come la composizione tipografica, un certo font, la carta, per tralasciare elementi visivi più eclatanti come la copertina, il logo, la costa, le dimensioni del libro, ci raccontano già di scelte editoriali determinate, ci ricordano all’istante l’editore. I lettori più avvezzi riconoscono a colpo d’occhio un editore piuttosto che un altro, anche a libro aperto. Ci si affeziona a un certo uso dello spazio, così come a un certo font e a un certo tipo di carta. Il libro regala piaceri sensoriali ineguagliabili che un ebook, nonostante possa riconoscerne i pregi, non mi donerà mai (e anche l’uso dello spazio bianco è completamente disatteso: vigono ben altre regole negli ebook, ahimè!).
Mi piace però pensare che ci siano pensieri anche verso i lettori, non solo verso i conti economici. Ci sono testi che abbisognano di molto respiro, di dare il tempo al lettore di incontrare il ragionamento dello scrittore con agio: un libro così è Gli anni di Annie Ernoux, editato da L’orma editore (traduzione di Lorenzo Flabbi, uno degli editori), una piccola e raffinatissima casa editrice milanese, che si impegna a tradurre e a portare in Italia il meglio della letteratura europea – con ottimi risultati, aggiungo. Nel libro Gli anni, che narra i pensieri autobiografici della scrittrice francese, una riflessione profonda e corale della generazione nata subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, lo spazio bianco compenetra i pensieri, vi entra in stretta relazione, non è “solo” uno spazio bianco, diventa il respiro della scrittrice. E tra lei e noi lettori si crea un legame profondo con lei anche grazie a questo uso sapiente del bianco.
Ritorniamo, infine alla riga tronca all’interno di un libro di narrativa, tipica del verseggiare.
Ci sono autori che usano lo spazio bianco, ne fanno arte e necessità, misura del loro periodare e del loro pensiero.
Antonio Ferrara, autore eclettico e prolifico, scrittore e illustratore, conosce molto bene il senso e il valore della riga tronca. Questo procedere spezzettato comunica, a noi lettori onnivori e mai contenti, il medesimo procedere del pensiero dei protagonisti; ci incontriamo nella loro mente, nel loro singhiozzare pensieri ed emozioni.
Prendiamo per esempio 80 miglia, pubblicato per Einaudi in questo 2015 (andrò a capo con Antonio):
“Mi piaceva perché era spiritoso, Joe. parlava, parlava, si divertiva, a parlare. Le cose al saloon te le diceva sempre in quel suo modo strano. Io avevo tredici anni e una granvoglia di scappare di casa, e quando lui si toglieva il cappello, lo appoggiava al bancone e attaccava a raccontare, gli morivo dietro. Quando per bere smetteva di parlare, non vedevo l’ora che ricominciasse. al pomeriggio mettevo la biada ai cavalli e poi correvo in paese per andarlo a sentire al saloon. Ero l’unico ragazzo, là dentro. Mi piaceva stare in mezzo agli operai della ferrovia, perché il treno era la mia passione. Ero contento che a Nadine stessero costruendo la stazione. Una volta restai ad ascoltarlo tutto il pomeriggio, Joe, e per sentirlo mi imbambolai e dimenticai di strigliare i cavalli e di dargli la biada. Mio padre al ritorno me le suonò di brutto, quella volta, e forse un po’ fu anche per via del fatto che prima di andarmene al saloon avevo messo un fiore di cardo tutto spine sotto la sella di Blacky, per vedere cosa faceva, e quando mio padre gli era saltato in groppa, Blacky era schizzato via come una freccia nel cortile e poi di colpo aveva puntato le zampe anteriori, si era fermato davanti al mucchio di letame e aveva scaraventato mio padre a faccia in giù in quella roba puzzolente.
Forse per questo le presi.
Mi sa di sì.
Però ero contento.
Anche se le presi, pensai che ne era valsa la pena.
Di andare al saloon, voglio dire, non di avere buttato mio padre nel letame.”
La concitazione del pensiero di Billy, il protagonista, è velocissima all’inizio, senza pause: un pensiero che si riverbera nella pagina senza respiro. Poi si calma, Billy si fa pensieroso, poi ridanciano al pensiero del padre finito nel mucchio di letame. Le sospensioni, le righe bianche, divengono parte del racconto, hanno e danno significato.
Il lettore, lanciato dentro al racconto da una prosa incalzante e paratattica, è immerso nel ricordo di Billy, ricordo che si stempera, che si calma via via. Questo modus operandi è tipico della prosa di Ferrara, che lo usa in maniera programmatica ed è efficacissimo per agganciare i suoi giovani lettori.
Per fortuna sua e nostra, gli editori accolgono e sposano la prosa di Antonio Ferrara. E pazienza se si usa un ottavo di carta in più.
(Ricevo dalle mani di Ferrara uno scritto inedito, che vedrà presto la luce: controllo dove ha interrotto la riga e dirò alla grafica di non toccare nulla, di non alterare queste righe tronche. E non importerà se rimarrà una parola da sola in cima alla pagina, spauracchio di ogni grafico. La riga interrotta aveva un senso per Antonio, avrà un senso anche per il lettore. L’editor, come un’ostetrica, accoglierà il testo dallo scrittore, lo laverà, lo vestirà, ma non lo modificherà, nemmeno se questo vorrà dire lasciare una riga appesa a testa in giù a guardare un vuoto sotto di righe bianche, un viale lungo lungo in cui il lettore si perderà, per poi ritrovarsi nel capitolo successivo.)
Chiedo ad Antonio Ferrara se il mio pensiero è corretto. In occasione di una presentazione dei suoi libri, Lodovica Cima, editor per San Paolo e ottima scrittrice, ha raccontato come di fronte al periodare franto di Ferrara ne avesse colto la potenzialità e l’efficacia verso i suoi giovani lettori, invitando il suo grafico a non modificare la strutturazione della pagina. Questa affermazione così onesta e vera della editor mi ha molto colpito, tanto da farmi riflettere notevolmente sugli interventi redazionali e grafici delle case editrici.
“Antonio, tu sei anche un raffinato e sapiente illustratore, l’uso che tu fai dello spazio bianco nei tuoi libri di narrativa non credo sia solo un espediente narrativo. Hai voglia di raccontarci di più?”
“Certo che lo spazio bianco mi serve, nei miei testi.
A evocare il silenzio. Il pensiero.
A dare il tempo al lettore per elaborare.
A rallentare la corsa a volte impetuosa del prima e del dopo.
A sottolineare per contrasto il tono prevalentemente tumultuoso del “parlato/scritto” – come lo chiamo io – del protagonista.
Lo spazio bianco fa risuonare le parole come l’eco in una stanza vuota, le fa durare. Come nella poesia. Nei libri di poesia c’è un enorme “spreco” di spazio. Con tutto quel bianco l’occhio si aggira nel vuoto e l’orecchio sente ciò che non è scritto.”
*Antonio Ferrara è scrittore, illustratore, poeta. Autore di moltissimi libri per bambini e ragazzi, nel 2012 è stato insignito del Premio Andersen con il Libro “Ero cattivo” per la narrativa dai 15 anni e nel 2015 ha nuovamente vinto il Premio Andersen con il volume “Io sono così” per il miglior libro fatto ad arte (il testo è di Fulvia degli Innocenti, Settenove edizioni).
Amatissimo dai suoi lettori (giovani e meno giovani) gira tutta Italia presentando i suoi libri e conducendo corsi di formazioni per insegnanti.
I suoi libri sono tradotti in molte lingue. Tra i suoi titoli più recenti: “80 miglia”, Einaudi, “Cuori d’ombra”, Salani, “La corsa giusta”, Coccole books, “Nemmeno un giorno”, Il Castoro, “La maestra è un capitano”, Coccole books, “Il ragazzo è la tempesta”, Rizzoli.
[…] le parole si fa abitudine, a leggere gli spazi è altra questione. L’hanno ben spiegato Angela Catrani e Alessandra Starace in due recenti articoli pubblicati su Libri […]
[…] raccontavo in un mio precedente articolo, la punteggiatura, così come la pagina bianca, fa dunque parte del lavoro muto e silente, ma […]