Sono sempre stata attratta dai libri in cui venivano raccontate le famiglie, più che da quei libri in cui il protagonista sembrava vivesse in un contesto avulso da qualsiasi dinamica famigliare.
Molto presto ho trovato attraenti le narrazioni delle famiglie numerose, quelle famiglie in cui il microcosmo interno potesse rappresentare il macrocosmo, senza gli urti e le difficoltà che la vita esterna può porre. Sistemi famigliari, oserei dire, più che famiglie come le intendiamo oggi. Famiglie costituite da genitori, tanti figli, nonni, ma anche servitori, e parenti a tutti i livelli.
Mi attirava l’idea della famiglia allargata (con un termine che certo non si conosceva trenta anni fa), quel nucleo sociale capace di catalizzare intorno a sé persone e risorse, ma anche capace di contenere dolori e gioie, segreti e misteri. Famiglie con un loro linguaggio specifico, con ricordi a cui aggrapparsi nei momenti incerti, con un sistema di paracadute per attutire urti e fatiche.
Due titoli letti in giovane età sono entrati nel mio mondo immaginario, hanno creato in me uno spazio di confronto vitale e necessario: due titoli oserei dire fondamentali e costitutivi di quel che sono da adulta, di come ho poi voluto e condotto un mio sistema famigliare. Non è un caso che entrambi i titoli riguardino due famiglie ebraiche di inizio Novecento: gli ebrei, isolati da secoli di razzismo e di intolleranza, hanno riversato dentro alla famiglia il sistema di valori, la religione, la cultura. Fuori era impossibile il confronto, anche se l’applicazione dello Statuto Albertino, portò, per le famiglie ebraiche, la possibilità di un riscatto sociale e civile e quell’uscita dal ghetto che i più abbienti tanto invocavano. Erano imprenditori, banchieri, ma anche medici e professori universitari. Facevano, finalmente, parte di quell’alta borghesia che non guardava più all’appartenenza religiosa, bensì al potere economico, al prestigio culturale e politico.
Famiglie ebraiche non più legate al culto, ma spinte a una rivendicazione sociale a tutti gli effetti. Per esserlo, il riconoscimento doveva essere senza spazi oscuri, a partire dai figli: perfetti, bravissimi, unici, e tanti. Famiglie numerose e unite da solide tradizioni e da un linguaggio comune, quel Lessico famigliare che Natalia Levi Ginzburg immortalò nel suo celeberrimo romanzo del 1963.
Il testo è ancora oggi letto nelle scuole secondarie di primo grado per il suo speciale candore, l’ironia che attraversa tutte le pagine e per essere una sorta di documento storico fondamentale, essendo la famiglia Levi al centro della Storia del Novecento: Natalia, romanziera, lavorò infatti per la casa editrice Einaudi insieme a Cesare Pavese, il filosofo Felice Balbo, l’editore Giulio Einaudi e tanti altri. Fu moglie di Leone Ginzburg, che insieme a Giulio Einaudi aveva fondato nel 1933 la casa editrice, ed era un antifascista, letterato e traduttore. Subito dopo sposati vissero anni difficili al confino, anche se arricchiti da tre figli. Nel 1943, Ginzburg morì in carcere.
Natalia era l’ultima di cinque fratelli: Gino, Paola, Mario e Alberto gli altri, e ognuno di loro rivestì nell’Italia tra le due guerre e dopo la seconda guerra mondiale una importanza che non fu solo data dal prestigio del cognome paterno (che li vedeva ebrei senza esserlo per davvero, dato che la madre era di famiglia cattolica, e socialista). Gino Levi lavorò come ingegnere a fianco di Adriano Olivetti, il quale fu a sua volta marito di Paola. Mario fu un importante antifascista, appartenente ai gruppi di Giustizia e Libertà, e dovette scappare a Parigi, dove rimase a lavorare e a vivere. Alberto fu un medico prestigioso.
Quando Natalia Ginzburg decise di lasciare memoria della sua famiglia, riunì i fratelli e lesse loro stralci del libro: non voleva strascichi e malumori a seguito della pubblicazione. Si ritrovarono a ridere delle battute, a ripetere insieme “il baco del calo del malo, il becho del chelo del melo, …” a cantare il Lohengrin nella versione materna, a rievocare la volta in cui Alberto “si iscrisse in medicina; e mio padre se lo trovava davanti, nell’aula di anatomia; e non gli piaceva niente trovarselo lì. Una volta, era buio nell’aula, e mio padre faceva delle proiezioni; e vide, nel buio, una sigaretta accesa. – Chi fuma? – urlò. – Chi è quel figlio d’un cane che s’è messo a fumare? – Sono io, papà, – rispose la nota voce leggera; e tutti risero.” (Pag. 86)
Un lessico condiviso e intimo, che riuscì a ricreare quel ritmo e quella gioia del ritrovarsi fratelli. Una fratellanza che era fatta di condivisioni e di scontri, di interessi comuni e di lotte all’ultimo sangue.
Vivevamo tuttavia anche nell’incubo delle litigate tra i miei fratelli Alberto e Mario, che anche quelle esplodevano improvvise, si sentiva a un tratto nella loro stanza un rumore di sedie che si rovesciavano, e di muri percossi, poi urla laceranti e selvagge. Alberto e Mario erano due ragazzi ormai grandi, fortissimi, che quando si prendevano a pugni si facevano del male, ne uscivano coi nasi sanguinanti, le labbra gonfie, i vestiti strappati. – Si amazzano! – gridava mia madre, trascurando l’emme doppia nello spavento. – Beppino vieni, si amazzano! – gridava, chiamando mio padre.” (Pag. 36)
Natalia, la piccola di casa, con una differenza d’anni importante rispetto ai fratelli, fu una osservatrice privilegiata e acuta. Dotata di empatia e di uno sguardo ironico e disincantato, ci porta con sé tra le mura domestiche, tra i rapporti intensi di questa famiglia sotto il fascismo.
A casa Levi si cantava e si urlava, si dibatteva e ci si scontrava. I musi lunghi, i silenzi, erano visti con sospetto dai genitori, che temevano per i figli destini avversi, ed erano, i figli, invece perfettamente in linea con il pensiero famigliare, tutti antifascisti e militanti. Il destino avverso sarebbe stato, infatti, aderire al fascismo!
Quanto alla politica, si facevano in casa nostra discussioni feroci, che finivano con sfuriate, tovaglioli buttati all’aria e porte sbattute con tanta violenza da far rintronare la casa. Erano i primi anni del fascismo. Perché discutessero con tanta ferocia, mio padre e i miei fratelli, non so spiegarmelo; l’ho chiesto ai miei fratelli in tempi recenti, ma nessuno me l’ha saputo chiarire. Pure ricordavano tutti quelle liti feroci. Mi sembra che mio fratello Mario, per spirito di contraddizione verso i miei genitori, difendesse Mussolini in qualche maniera; e questo, certo, mandava in bestia mio padre: il quale con mio fratello Mario aveva sempre discussioni su tutto, perché lo trovava sempre di un’opinione contraria alla sua. (pag. 29)
Una famiglia il cui collante era rappresentato dal lessico, dal linguaggio speciale fatto di memoria e di ricordi, di citazioni continue, di rimandi interni ed esterni. E i rapporti tra i fratelli, nei dialoghi, nei confronti e negli scontri (soprattutto nei litigi frequenti e burrascosi) riflettevano il rapporto con il mondo esterno, con la vita vera.
I caratteri dei fratelli trovano nel protetto e morbido contesto famigliare la possibilità di rivelarsi e di formarsi, di espandersi e contrarsi, di educarsi. Da casa si usciva, per studiare, lavorare, sposarsi, e si rientrava, vedovi, divorziati, infelici. La famiglia rimaneva compatta, nei ricordi e nel linguaggio da tramandare ai figli dei figli, con allegria, malinconia e piacere.
A Roma, nel frattempo, si formava e cresceva un’altra famiglia di origine ebraica.
Nella famiglia Sereni essere in tanti era un punto di forza. Il gioco dei regni, di Clara Sereni, pubblicato da Giunti nel 1993, è un capolavoro. Poco noto al grande pubblico, racconta la vita dei fratelli Sereni dagli inizi del 1900 fino alla fine degli anni Sessanta: Clara Sereni è la figlia di Emilio (Mimmo) Sereni, ministro della Repubblica Italiana e celebre professore universitario, a sua volta figlio di Samuele Sereni, medico della famiglia reale e membro della migliore borghesia ebraica. Emilio Sereni era il minore di tre fratelli (Enzo ed Enrico i maggiori), abituati allo scontro dialogico tipico della cultura ebraica, con lo studio approfondito del Talmud e della Torà: con i tanti cugini (gli Ascarelli, i Milano, i Pontecorvo) avevano inventato un gioco, attraverso il quale esercitare la politica e l’economia. Un regno vero, con tanto di re e ministri, città, moneta, stampa: un sistema economico e sociale completo, dunque.
Assalti, agguati e battaglie, il gioco della compravendita, i matrimoni: all’inizio fu come tante altre volte, schieramenti contrapposti e la pace, le bambine che lamentandosi di estromissioni si chiudevano in rifiuti sdegnosi, la lotta fra partiti ininterrottamente fatti e disfatti, le ripicche di gruppo e di ciascuno.
Fu poi d’inverno, quando con la pioggia cominciò la produzione di giornali, con i giuramenti e i verbali delle sedute, e poi vennero le guide della città trasfigurata nei nomi di piazze strade e viali, e i cataloghi di musei inventati, e la zecca stampò monete e francobolli, fu insomma quando i ragazzi cominciarono a pensare uno Stato che i grandi si accorsero che qualcosa stava accadendo: il gioco dei Regni era, già nel nome che aveva, un progetto e una prova. (pag. 57)
Un gioco che provocava vere e proprie risse, sopportate dagli adulti, che guardavano benevolmente e con orgoglio verso questa nuova generazione in grado di orientarsi così bene con il sistema politico e sociale. E quando una rissa degenerò e il gioco dei Regni fu proibito, i fratelli e i cugini si inventarono dei modi clandestini di portar avanti il Regno con la creazione di sistemi crittografici e segni segreti (che risultarono poi utili quando i fratelli entrarono in clandestinità).
I fratelli Sereni erano, da piccoli, unitissimi e compatti: e il fratello più debole era protetto dal gruppo. Enrico, Enzo, Emilio: geniali, dirompenti, esplosivi. Più riservato e timido Enrico, che a 18 anni partecipò alla prima guerra mondiale, con il carico di fatica e di dolore che ben descrive Ungaretti, e l’umore di Enrico rimarrà quello: una foglia sempre in procinto di cadere, con una malinconia discreta ma pervasiva, e quando il suicidio arriverà, per i genitori fu solo una conferma.
Enzo era un seduttore dal carisma di capo, un idealista, un coltivatore di nuvole, diremmo oggi. Nel 1926 partì per la Palestina, con la giovanissima moglie Ada, a costruire un mondo nuovo, dalle possibilità illimitate. Morì anche lui troppo presto, stroncato dalla fatica. Nel frattempo era venuto meno il sodalizio con Mimmo, che era passato a militare nel Partito Comunista, con una vita fatta di sotterfugi, carceri, pericoli. Una frattura, tra i due fratelli, che portò una ventata di rancori, delusioni e che mise a dura prova la forza della famiglia. Frattura salvata, di nuovo, dal lessico privato, intimo: quando Enzo arrivò a Parigi durante uno dei suoi viaggi di propaganda, bastarono due parole, Zusammen und zu fuss, per ritrovarsi fratelli.
Ci si allontana politicamente, ma si è sempre uniti nel sangue, nelle parole, nella condivisione di vita.
Il sistema famigliare unito e indissolubile percorre ogni pagina del libro: i fratelli si sposano, emigrano, cambiano casa, ma il nucleo compatto li protegge, garantisce solidità economica ed emotiva.
È naturale per tutti che Alfonsa accolga in casa Xenia (moglie di Mimmo) e Dvora (moglie di Enrico), e le loro bambine: vedova l’una, vedova bianca l’altra, straniere ambedue per radici, hanno mezzi di sostentamento precari.
Non è naturale per lei, che si era organizzata una solitudine, ma della sua fatica si accorge solo Lello, a tratti: perché Alfonsa riesce nel miracolo di esserci sempre quando serve, e scomparire anche in casa propria quando la sua presenza può non essere opportuna. (pag. 271)
Non c’è mai giudizio verso le scelte dei figli, solo la richiesta di essere forti e coerenti con le proprie scelte.
Lello aveva accesso a Corte, e credito: per il momento, la famiglia reale ancora non rinunciava alla sua scienza.
Non volle creare imbarazzi, non volle forzare più del conveniente la situazione: pregò qualcuno di chiedere, per lui.
La risposta arrivò presto. Dal re, e sicura: tutto poteva risolversi, le accuse sarebbero state cancellate se solo Mimmo avesse sconfessato la propria appartenenza al Partito Comunista.
Per quella stessa benevolenza, con la preziosa informazione Lello e Alfonsa ottennero un colloquio: un’indulgenza straordinaria e segretissima, e nemmeno gli misero i ferri.
Una manciata di minuti a disposizione, Lello spiegò in fretta la proposta e intanto Alfonsa guardava Mimmo con occhi fermi.
Suo figlio non la deluse. (Pag. 258)
Quando il sistema famigliare è così forte e sereno, quando la fiducia passa attraverso due occhi fermi, i figli non possono che volare con le proprie gambe, anche negli errori, nelle decisioni sbagliate, nei contrasti.
Credo che parlare di fratelli e sorelle nella Letteratura per ragazzi, oggi come allora, non sia possibile senza parlare di famiglia, argomento scottante e fonte sempre di equivoci. Senza la famiglia, o meglio, senza le famiglie infatti, non potrebbero esserci i fratelli e le sorelle. Siamo abituati a pensare a famiglie come nuclei estremamente ristretti, a sistemi chiusi e soffocanti, dove i figli, per sopravvivere, debbano per forza uscire, rompere gli schemi, allontanarsi.
Ma è ancora e solo così?
È necessario scardinare un sistema famigliare per trovare la propria strada?
Oppure, come si vede da questi due libri che raccontano due famiglie reali, a volte il sostegno della famiglia può far emergere talenti e caratteri eccellenti, può aiutare nella creazione dell’essere persona di valore?