I confini del bosco sono ben visibili e la strada che conduce al suo limitare è ben riconoscibile: la strada battuta comincia a diradarsi, diventa meno chiara, si copre di erba fino a confondersi del tutto con essa. L’opera dell’uomo si ferma e si arrende a quella della natura. Il distacco tra terra addomesticata e terra incolta è spesso molto evidente. La terra quotidianamente percorsa o curata dagli uomini è inondata di luce, ospita messi, è costituita da elementi di grandezza modesta, è giovane e si rinnova. La terra selvaggia è invece fitta di alberi secolari e altissimi, il sottobosco affollato da cespugli e fiori che si accalcano gli uni rubando lo spazio e la poca luce filtrata dai rami agli altri. Il sottobosco marcisce e della marcescenza si nutre per dar vita a esplosioni di meraviglia selvaggia.
Il confine del bosco lo si riconosce anche grazie a sensazioni ataviche che sussurrano sottopelle parole d’allerta o capaci di convincere anche le sentinelle più ostinate. Perché talvolta ve ne sono: animali accucciati sul margine, che annusano l’arrivo dei viandanti e si pongono in allerta coi sensi, per capire se concedere o meno l’accesso. Uccellini che mangiano le briciole che conducono al di fuori di esso, per evitare che due fratellini possano tornare indietro alla loro infanzia prima di essere cresciuti; altri che cantano e cantano, per mettere in allerta, per scoraggiare. Talvolta, la sentinella al varco più ostinata è la voce che risuona nella propria memoria: non varcare il limitare del bosco, rimani sul sentiero… un suono, un odore che rispolvera nella memoria il divieto e blocca, immobilizza, fino a quando il profumo dei fiori selvaggi non interviene a smuovere il desiderio di compiere delle scelte da sé.
Chi entra nel bosco sa di star sottoponendo se stesso non solo a una prova ma anche a un grandissimo rischio: varcato il margine del bosco il viandante è sollevato dall’esserci riuscito incolume e si addentra con passo incerto, ma anche un po’ sconsiderato, in quello che può rivelarsi un labirinto intricato di rami e cespugli che, sullo straniero, opera in due maniere differenti: o ha per effetto uno straniamento, oppure affascina. Quello che accade più di frequente nel bosco fiabesco è perdersi: l’essere senza punti di riferimento esaspera l’angoscia del luogo sconosciuto e i narratori di fiabe ne sono ben consci, quindi il bosco si rabbuia, scendono le tenebre, gli animali emettono versi lugubri, il freddo ghiaccia la pelle. Tutto induce il protagonista ad amplificare il proprio senso di precarietà, la propria sensazione di lontananza dai luoghi cari e familiari. Varcato il confine si è soli, tutto attorno è sordo alle richieste d’aiuto, non si parla più la lingua che si parlava sotto la luce del sole, tra campi coltivati, sulla soglia della propria casetta o seduti su un trono.
Cappuccetto Rosso entra nel bosco e ne varca la soglia con piacere e in esso sorride, si lascia andare a una naturalezza che diventa anche la propria e che la induce a fidarsi del luogo straniero in cui si trova a passare e dei suoi abitanti. Cappuccetto Rosso è serena nel bosco, gode dei suoi frutti, si trattiene tra le ciocche profumate, tra i cespugli. Ogni nuovo fiore una meraviglia: opera su di lei lo stupore del viaggiatore, lo stupore della scoperta. In questo Paese/bosco straniero ogni cosa ha il profumo della novità.
Sul limitare del bosco Cappuccetto Rosso si ferma a guardare indietro, considera, braccia incrociate dietro alle spalle in un ultimo gesto di fanciullezza. Poi, conscia di sé, scioglie le mani e si lascia tutto alle spalle, varca il confine, ma, scaltra, ascolta il bosco e conserva traccia della strada da percorrere, quella che in un posto straniero essa stessa ha segnato. La sua strada.
La differenza d’attitudine nei confronti del confine e del suo superamento, trovandosi oltre e altrove, corrisponde al motivo per cui si è intrapreso il viaggio, spesso contraddistinto dal dolore di una perdita, dalla morte di un familiare; dall’angoscia di un compito gravoso e importante, quale quello di dover liberare una fanciulla, di dover compiere un’impresa di cui non ci si sente capaci e la cui non riuscita potrebbe voler significare la morte; dal muoversi verso ciò che è oscuro, ignoto. Oppure dalla gioia del raggiungere un proprio caro, dal ricongiungersi con esso, dal prendere possesso di un altro regno.
[Il racconto fiabesco] distribuisce gli eventi sul nastro del viaggio che è il mito del secolo e il contesto nel quale si può raccontare di qualsiasi meraviglia senza contraddizione. “(Michele Rak, Logica della fiaba, Mondadori).
L’intraprendere un viaggio, il mettersi in cammino, l’andare verso un altro ignoto è sempre funzionale alla narrazione. Non ci sono direzioni fisse, indicazioni oggettive. Non c’è un Nord, un Sud e se ci sono non ci sono mai elementi grazie ai quali individuarli. I protagonisti delle fiabe si mettono in cammino e vanno lontano, lontano, in boschi senza nome, ai piedi di montagne enormi, laddove sorge o dietro alle quali tramonta il sole. Nulla è più vago delle indicazioni date agli eroi e alle eroine delle fiabe.
Essi vanno perché altrimenti la loro condizione resterebbe immutata e non ci sarebbe più alcuna fiaba da raccontare. Per questo i confini sono mutevoli, magici, per questo per alcuni sono tali, per altri non hanno nessun valore. Però coloro che restano al di qua del limitare del bosco sono le madri che continuano a far marmellate, sono nonnine che continuano indifferenti a filare, sono padri che continuano a occuparsi del proprio mulino, non diventeranno mai gli eroi capaci di fare le storie. Quando entra nel bosco l’eroe, o l’eroina, non è cosciente della direzione che prenderà il suo cammino, proprio perché non ha elementi per orientarsi; come si evolverà il suo viaggio e il suo cammino dipenderà dai passi che deciderà di compiere (nonostante incontri, oggetti magici, spaesamento). È nel momento in cui si varca il confine del bosco che incomincia la fiaba. Il confine del bosco è anche quello tra la cornice (il preambolo) e l’avventura, gli accadimenti.
Biancaneve entra nel bosco condotta, per volere della perfida matrigna, da una guida di cui si fida (il cacciatore); da sola non avrebbe affrontato un viaggio del genere, in compagnia supera la soglia del consueto. Per lei il bosco diventa una trappola da cui sembrerebbe impossibile fuggire, complici arbusti spinosi e animali selvaggi, ma paradossalmente la fuga priva di direzione, il vagare disperato nel bosco, la conduce a una casa. Biancaneve varca un altro confine, verso un altro ignoto, stavolta però si tratta di un luogo sconosciuto ameno, con un proprio spazio addomesticato intorno, un proprio recinto.
“Biancaneve nel frattempo era sola e abbandonata nel bosco, e trascinata dalla paura corse e corse fino a sera su rocce aguzze e rovi pungenti: finalmente al tramonto, arrivò a una casetta.” (Biancaneve, in Principessa Pel di Topo, fratelli Grimm, Donzelli, 2012)
Il bosco è monopolio delle ombre, scrive Giambattista Basile, laddove gli unici a non pagar dazio sono gli animali che lo abitano.
“La povera Porziella […] fu trascinata in un bosco – dove gli alberi facevano da palizzata ad un prato perché non fosse scoperto dal Sole, i fiumi si lamentavano perché procedendo al buio inciampavano nelle pietre e gli animali selvatici senza pagare gabelle godevano della loro Benevento e se ne andavano sicuri in mezzo a quelle macchie – dove non arrivava mai nessuno a meno che non avesse perduto la strada” (La pulce, in Lo cunto de li cunti, Basile, Garzanti)
Nessuno arriva nel bosco della Baba Jaga a meno che ella stessa non ve l’attiri o qualche personaggio senza scrupoli non tenda qualche trappola a un altro debole o ingenuo.
La Baba Jaga vive nel bosco, in una casetta che si regge su zampe di gallina. Chi arriva alla sua porta ha già valicato un confine, quello costituito dal limitare del bosco, ma una volta dinanzi alla sua casa deve fare i conti con altre soglie, altri margini.
Attorno alla casa della Baba Jaga c’è un recinto di ossa. In cima alle quali teschi dagli occhi infuocati da un fuoco perenne, stanno a guardia. Sentinelle, una volta uomini, attente e spietate, che pochi lasciano passare. Una volta superato il cancello il viandante deve scoprire dove sia la porta, perché essa è mobile. Il varco è nascosto e magico, solo chi conosce la parola giusta può sapere dove essa sia e quindi oltrepassarla. La parola magica è un lasciapassare, che la casa non rivela facilmente, per l’ultimo confine, quello più inquietante: la Baba Jaga, perché essa stessa è il bosco, essa stessa è un confine mobile, mutevole e feroce. Persino i tre cavalieri dell’alba, del Mezzogiorno e della notte devono pagarle un dazio, fermarsi davanti al recinto, fino a che la strega non li veda. La casa della Baba Jaga si alza sulle sue zampe di gallina e si muove, recinto e ossa e crudeltà, laddove ella desidera, e una volta giunti nel punto prescelto si accovaccia e ristà, segnando i limiti insuperabili e spiccando rispetto all’area circostante.
Alle spalle della casa in cui viveva assieme alle sorelle e alla matrigna Vassilissa la Bella c’era un bosco fitto fitto e nel bosco una radura e nella radura la casa della Baba Jaga che non lasciava avvicinare nessuno e che mangiava uomini come fossero pulcini. Vassilissa con l’inganno viene mandata a chiedere a questo essere delizioso del fuoco in prestito. La ragazza, bella quanto impavida, va. Dopo essere entrata nel folto del bosco (non senza portare con sé la bambolina magica donatale dalla madre in punto di morte, quindi l’oggetto magico/protettivo), la ragazza passa una notte intera a vagare, per poi arrivare nei pressi di una radura. Nella radura la casa della Baba Jaga.
“Lo steccato che l’attorniava era fatto di ossa umane, sul recinto eran piantati crani umani, provvisti di occhi; invece dei battenti, al portone, gambe umane”…
e così via, fino a una serratura di denti aguzzi. Tutto, attorno alla casa e nella casa della strega, è a guardia del confine tra il bosco che è luogo selvaggio e indomito, ma talvolta accogliente, e quello regolato dalla magia e dalla morte in cui ella domina.
Quando la Baba Jaga arriva, sua è la voce del bosco, i rumori della selva quelli che l’annunciano e poi la voce terrificante rivolta al cancello: chiavistelli, apritevi! Cancelli, spalancatevi!
La strega varca la sua soglia mobile e dietro di lei Vassilissa. Poi, oltre il confine, speriamo sia vissero tutti felici e contenti.