Leggere e scrivere rende liberi. La scrittura però, che per noi uomini moderni appare essere così comune, fu la più grande conquista tecnologica, insieme alla ruota, intorno al IV millennio.
“Nei giorni che seguono, ogni sera, quando Shafà mi lega al piolo come un cucciolo di elefante, Sileno mi insegna le parole della lingua cartaginese. E mi insegna anche a raccontare un pensiero senza dire una sola parola.
«Una magia…»dico io.
«Sì, una specie di magia che ci ha portato Cadmo dalla Fenicia…»
«Chi è Cadmo?»
«Un amico…» dice Sileno, e ride. Non deve essere un suo amico. Sarà una divinità.
Per fare questa magia bisogna avere una tavoletta ricoperta di cera e un bastoncino appuntito. Sileno fa dei segni sulla cera che copre la tavoletta. Sembrano zampe di gallina, punte di freccia, rami biforcuti…
«Questa cosa si chiama scrivere…» dice. «E questi segni sono lettere dell’alfabeto».
Le lettere dell’alfabeto sono tante e tutte diverse. Ma ogni segno può essere anche un suono da fare con la bocca. Ogni parola è formata da tanti segni e da tanti suoni. Quando scrivi, la parola non suona più, ma può suonare di nuovo dopo tanti giorni, oppure intere stagioni, anche su altre bocche.
«Questo si chiama leggere…» mi dice Sileno.”
L’ultimo elefante di Pino Pace (Giunti editore 2016) racconta la Seconda Guerra Punica vista da uno dei tanti ragazzi presi come schiavi durante la campagna di Annibale attraverso la Tunisia, la Penisola Iberica e la Gallia. Al seguito dei cartaginesi c’erano popolazioni provenienti da diversi Paesi, che parlavano una moltitudine di lingue, analfabeti, spesso inconsapevoli del brutale destino cui sarebbero andati incontro.
Mesilea ha circa 12 inverni, pascola le pecore, ama gli animali, è molto sveglio e capace. Catturato, viene messo ad accudire gli elefanti, i maestosi ed enormi animali, sconosciuti ai romani, con cui Annibale sperava di poter distruggere la nemica Roma.
Ma Mesilea viene anche istruito da Sileno da Calatte, uno dei tanti letterati greci al seguito della corte di Annibale.
Il brano di Pace, inventato ma assolutamente plausibile per l’epoca e funzionale alla storia narrata, mi offre l’occasione per aprire un ragionamento sui confini tra oralità e scrittura.
Il confine tra l’oralità e la pratica chirografica si protrae per secoli: nonostante tradizionalmente si attribuisca l’invenzione della scrittura ai Fenici intorno al 3500 a.C., pure l’Homo sapiens ben da prima conferiva a segni specifici determinati significati che si trasmettevano come tradizione di padre in figlio e cambiavano però di famiglia in famiglia, dato che ogni tribù (composta da più famiglie imparentate tra loro) era molto chiusa e competitiva.
Il grande sviluppo commerciale e i viaggi del popolo fenicio diedero probabilmente una accelerata alla diffusione della pratica scrittoria in tutto il Mediterraneo.
Gli storici e i semiologi parlano di un unico alfabeto che si propagherà proprio a partire da quello fenicio: ricordiamo che l’alfabeto ebraico e arabo (o semitico per includere tutte le lingue dell’area mediorientale), quello greco, quello latino e quello cirillico in seguito, presentano indiscussi tratti comuni.
Ma la scrittura era appannaggio di pochi, anzi pochissimi: i commercianti prima, che limitavano la pratica chirografica a segnare le merci vendute (sorta di bolle di accompagnamento merci), poi i sacerdoti, i giuristi, infine i letterati. Tutti gli altri rimasero analfabeti per millenni, fino quasi ai nostri giorni: l’introduzione dell’istruzione obbligatoria è pratica assai recente su una ipotetica linea temporale.
Un confine, dunque, assai labile e precario.
La nascita della scrittura e della lettura, pur se all’inizio riservata solo a determinate classi sociali, cambiò in maniera significativa la struttura del cervello umano, cioè le sue capacità, anche se non le sue abilità. La scrittura infatti permise al cervello umano un’evoluzione verso l’immaginazione creativa. Prima della scrittura, secondo gli etnologi e gli antropologi, la filosofia non sarebbe potuta nascere.
La pratica esclusivamente orale prevedeva che l’uomo limitasse l’uso del cervello alla funzione materiale dell’esistenza: era necessario ricordare il periodo della semina, seguendo la luna, il succedersi dei giorni, delle settimane, dei mesi per l’agricoltura e la pastorizia, sapere come si costruisce un oggetto, sapere insegnare a farlo, ma non c’era la possibilità di un pensiero complesso dietro.
La nascita della scrittura e della lettura, pur se all’inizio riservata solo a determinate classi sociali, cambiò in maniera significativa la struttura del cervello umano
Le grandi epopee orali nacquero per ricordare il succedersi delle generazioni dei governanti e lo facevano non limitandosi a dei semplici elenchi, ma narrando una successione: per fare un esempio esemplificativo possiamo ricordare il primo capitolo del Vangelo di Matteo, che presenta ancora questa struttura tipicamente orale:
“[1]Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo. [2]Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli, [3]Giuda generò Fares e Zara da Tamar, Fares generò Esròm, Esròm generò Aram, [4]Aram generò Aminadàb, Aminadàb generò Naassòn, Naassòn generò Salmòn, [5]Salmòn generò Booz da Racab, Booz generò Obed da Rut, Obed generò Iesse, [6]Iesse generò il re Davide.
Davide generò Salomone da quella che era stata la moglie di Urìa, [7]Salomone generò Roboamo, Roboamo generò Abìa, Abìa generò Asàf, [8]Asàf generò Giòsafat, Giòsafat generò Ioram, Ioram generò Ozia, [9]Ozia generò Ioatam, Ioatam generò Acaz, Acaz generò Ezechia, [10]Ezechia generò Manasse, Manasse generò Amos, Amos generò Giosia, [11]Giosia generò Ieconia e i suoi fratelli, al tempo della deportazione in Babilonia.
[12]Dopo la deportazione in Babilonia, Ieconia generò Salatiel, Salatiel generò Zorobabèle, [13]Zorobabèle generò Abiùd, Abiùd generò Elìacim, Elìacim generò Azor, [14]Azor generò Sadoc, Sadoc generò Achim, Achim generò Eliùd, [15]Eliùd generò Eleàzar, Eleàzar generò Mattan, Mattan generò Giacobbe, [16]Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo.
[17]La somma di tutte le generazioni, da Abramo a Davide, è così di quattordici; da Davide fino alla deportazione in Babilonia è ancora di quattordici; dalla deportazione in Babilonia a Cristo è, infine, di quattordici.”
Questo capitolo, che per un lettore moderno non è di alcun interesse, pure presenta delle singolari conferme alle scoperte degli studiosi. Innanzitutto il Vangelo di Matteo si colloca intorno alla fine del I secolo e pur essendo nato scritto, riproduce un andamento orale, caratteristico del giudaismo prima della diaspora (nel 70 d.C venne distrutto il Tempio di Salomone e gli ebrei si dispersero in tutta Europa e nell’area mediorientale). Tipico del popolo ebraico è lo studio da parte della popolazione maschile della Torà, ma la sua formulazione, che ha origini antichissime, presenta un andamento orale: la Torà veniva imparata a memoria e non erano concessi errori, da qui la necessità di un ritmo e di un andamento che potessero essere ricordati mnemonicamente, esattamente come continueranno a fare le popolazioni a cultura prettamente orale.
Nelle culture orali però la genealogia ricordata solo mnemonicamente era legata all’ultimo re o governante e la sua famiglia, dimenticando (a volte appositamente) i precedenti: dunque una cultura che non manteneva una memoria “antica”, ma seguiva una necessità esclusivamente legata alla convenienza del momento, una necessità dunque politica o cortigiana.
Tra i grandi poemi che sono alla base della nostra civiltà*, Iliade e Odissea hanno una storia affascinante e che si pone proprio al confine tra oralità e scrittura.
Nate in un contesto prettamente orale e diffuse dagli aedi che giravano per tutta l’area del Mediterraneo (Grecia e Turchia, ma non solo), furono trascritte in un’epoca che si colloca tradizionalmente intorno al VI secolo a.C. (così come ricordato da Cicerone); la forma dei due poemi omerici, che hanno delle strutture formulaiche abbastanza similari, pure nella diversità linguistica e nella differente concezione della trama, è tipicamente quella dei grandi poemi orali antichi anche fuori dall’area europea: formule fisse per ricordare i nomi degli eroi e degli dei, elenchi dettagliati, descrizioni naturali codificate, una struttura metrica rigida (esametro dattilico nel caso dei poemi omerici). Proprio la metrica aiutava la memoria: in italiano abbiamo ormai perso del tutto la capacità di sentire se una sillaba sia breve o lunga (anche se in alcuni dialetti ancora possiamo cogliere un certo trascinamento su certe vocali, come la “e” o la “o”), ma per la lingua greca la distinzione era assolutamente fondamentale. Tutta la metrica greca e latina infatti si basa su questa differenza. E così la metrica dell’esametro con le sue alternanze di sillabe lunghe e brevi, aiutava la mente a ricordare le parole. Purtroppo questa non è la sede adatta per addentrarmi in lunghe spiegazioni, ma troviamo questa medesima facilitazione per la memoria orale nelle filastrocche ritmate (uno splendido libro è An ghin gò di Emanuela Bussolati, Il Castoro, dove si trovano raccolte filastrocche, conte e stroccole della tradizione italiana): “Ambaraba cicì cocò / tre civette sul comò / che facevano l’amore / con la figlia del dottore / il dottore si ammalò /ambaraba cicì cocò” Questa filastrocca non ha nessuno significato, ma sfido chiunque a non ricordarla!
Il poeta Virgilio, quando decise di costruire un poema che esaltasse le origini di Roma, scrisse l’Eneide, anch’esso in esametri dattilici, anch’esso intriso di formule fisse, adatto a essere recitato a memoria davanti al popolo.
Ancora Dante prevede una recitazione a memoria della Divina Commedia: lo si intuisce dalle pause, cioè dalle cesure dell’endecasillabo, che aiutano nella memorizzazione.
“Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita”
(Divina Commedia, Inferno, Canto 1, vv. 1-3)
Ancora nel XIV secolo il confine tra oralità e scrittura era incerto. I testi venivano scritti per essere recitati davanti al popolo analfabeta. Ma era comunque sentita la necessità di educare le persone: lo si faceva tramite i grandi cicli di affreschi (ricordiamo quelli di Giotto ad Assisi e a Padova, spettacolari esempi di come il racconto biblico o il racconto della vita di un santo potessero essere narrati non solo a parole), grandi incontri pubblici, o tramite monumenti a perenne memoria.
La rivoluzione portata dalla scrittura è quindi lenta: procede inesorabile ma riguarda una minoranza alfabetizzata e non sarà compiuta fino all’avvento della stampa. La stampa sarà la tecnologia che da una parte consentirà una diffusione più capillare, dall’altra cambierà ancora il modo con cui la scrittura ci fa pensare il mondo.
L’uomo medievale che scrive un testo, anche non per essere declamato a memoria, prima dell’avvento della stampa non rispettava i margini, quali li pensiamo noi oggi: la carta (per non parlare di altri supporti, come il papiro per esempio), era carissima, per realizzarla ci volevano giorni e giorni, spesso marciva. Da qui la necessità di sfruttarne ogni millimetro: il foglio aveva un unico limite, quello dei bordi, non c’erano dunque margini bianchi, le righe erano strettissime, la scrittura piccolissima al limite della comprensione. Questo rispecchiava anche il cervello umano che scriveva così come ancora pensava: in maniera assolutamente libera, se pur legato a delle rigide strutture retoriche. C’è in effetti una contraddizione, che il letterato antico non sentiva. Perché la retorica lo aiutava nella costruzione mentale di un discorso, pensato oralmente, poi posizionato sulla pagina. L’avvento della stampa diede alla scrittura un ulteriore sviluppo: l’idea che un libro si potesse riprodurre in più copie facilmente e senza tutti gli errori che potevano fare manualmente i copisti, allargò a dismisura la potenzialità della tecnologia scrittoria. Lo scritto era considerato come elemento quasi divino: si riscoprì una sacralità del pensiero, una volta messo per iscritto. La diffusione del libro, che a questo punto era davvero a disposizione di tutti quelli che lo chiedessero, diede allo scrittore una veste quasi sacrale. E ancora oggi non ne siamo esenti. Se un testo è scritto, allora dovrà essere per forza valido, buono, sincero.
Piano piano l’uomo smise di scrivere dopo aver composto oralmente nella sua mente: l’uomo moderno non può più prescindere dalla pagina scritta. Quando un oratore, un politico o un conferenziere, deve parlare in pubblico, anche se non legge da una pagina scritta, struttura il discorso pensandolo incanalato dentro a un foglio mentale, con tanto di margini, di righe, di un determinato numero di battute per righe e via andare. Scrive mentre pensa e parla, così come il letterato antico spesso “parlava” anche quando scriveva.
La scrittura, si è detto, è rimasta appannaggio di poche privilegiate persone per millenni. Ancora oggi se un dittatore vuole sottomettere la sua popolazione, la prima cosa che fa è cercare di mantenerla nell’ignoranza e nell’analfabetismo.
Purtroppo ne abbiamo esempi continui nei migranti: molte persone (donne soprattutto) che arrivano dall’Est asiatico o dal continente africano sono analfabete.
– Cosa diavolo fai? Non sai cosa va incontro se la scoprono che prova a leggere? Ne abbiamo già avuta una di ragazza fatta a pezzi dalla rusta e dai cani. Non ne servono due.
Fino a quel momento ero rimasta zitta, a guardare. Mi pareva che non facesse niente di male a insegnarmi qualche lettera. Magari anche una parola o due. Così lo dissi.
– Non fa mica niente di male…
– Niente di male? – sibilò Mammy, come un serpente. – Se impari a leggere, ragazzina, quelli ti tagliano i pollici. Ti frustano fino a ridurti la schiena come una piaga… finché non diventa come la sua! – continuò, puntando il vecchio indice verso John. – E’ per quello che ti hanno ridotto così?
John della Notte scosse la testa.
– No: ero scappato.
– E ti hanno ripreso.
– No, la prima volta no.
Mammy aspettò, in silenzio. Aspettai anch’io.
– La prima volta che sono scappato, ce l’avevo fatta. Continua ad andare verso nord. Ero libero.
Non avevo mai sentito una cosa simile. Noi non potevamo nemmeno parlare di libertà. Eppure lì c’era un uomo che diceva di essere scappato verso nord, e che era stato libero. “Com’era possibile?” pensai.
– Sei scappato e sei andato via? – domandò Mammy.
– Sì.
– Scappato finché non potevano più riprenderti?
– Sì.
– E poi sei tornato indietro?
– Sì.
– Perché?
Sospirò, e fu come sentire la sua voce, la sua risata. Come un tuono profondo, in lontananza. Mi fece pensare che prometteva qualcosa, come il tuono promette la pioggia.
– Per questo.
– Che significa… questo?
– Insegnare a leggere.
Questo struggente brano viene da John della Notte, di Gary Paulsen, pubblicato nel 1993, tradotto da Francesca Cavattoni per Mondadori nel 1996. Il romanzo narra avvenimenti realmente accaduti. La necessità per uno schiavo di tornare nel Sud degli Stati Uniti e insegnare a leggere e a scrivere ad altri schiavi è più forte di tutto, persino della libertà personale (“- Devono saper leggere e scrivere. Tutti dobbiamo imparare a leggere e scrivere, così possiamo scrivere… tutto quello che ci fanno. Dobbiamo scriverlo.”)
Ancora nel 2017 ci sono persone che non hanno questa capacità, non hanno la possibilità di imparare a leggere e a scrivere. Un bambino di sei anni che sta imparando è un privilegiato, forse è proprio questo a cui dobbiamo tornare a pensare, quando vediamo faticare i bambini con la stessa fatica dei fenici del 3500 a.C.
“Mi ha mostrato un pezzo di carta. C’era scritto un numero con un pennarello verde. Ho chiesto una biro a kaka Hamid e me lo sono appuntato su un quaderno che lui mi aveva portato dal negozio, in regalo, un quadernetto con la copertina nera su cui scrivevo cose che così poteva anche dimenticare, visto che le avevo scritte. Era stato lui, kaka Hamid, a insegnarmi a leggere e scrivere meglio di quanto già sapessi fare.” (Fabio Geda, Nel mare ci sono i coccodrilli. Storia vera di Enaiatollah Akbari, Baldini e Castoldi 2010)
Leggere e scrivere rende liberi. Liberi di vivere e liberi di pensare. Liberi di immaginare, liberi di capire. Sapere leggere, sapere scrivere, abbatte le gabbie e supera i confini.
Sapere, infatti, è potere.
“E dopo venne Aina e mi prese il libro dalle mani e lo sfogliò, cominciò a leggerlo a voce alta, a leggerlo davvero, voglio dire, e io il libro adesso lo sentivo per la prima volta e dalla gioia mi vennero le lacrime. Siccome la guardavo con la bocca spalancata, mi insegnò un poco come si legge, e un poco fece leggere anche me. […] Al bar il giorno dopo raccontai quello che il libro diceva per davvero, quello che Aina aveva letto. Era un libro che parlava, adesso, che era vivo, e quelli stavolta ascoltavano con la bocca aperta. Adesso quel libro era amico mio, più o meno come Thabo, e anche da solo col libro tra le mani adesso mi sentivo meno solo.
Stavolta ci scappò il latte, il pane e pure una papaya, e io pensai che a saper leggere davvero ci potevi guadagnare.”
(Antonio Ferrara, Il fiume è un campo di pallone, Bacchilega Junior 2016)
Bibliografia:
AA.VV., Origini della scrittura, a cura di Gianluca Boschi e Mauro Ceruti, Bruno Mondadori 2002
Pino Pace, L’ultimo elefante, Giunti 2016
Emanuela Bussolati, An Ghin Gò, Il Castoro 2012
Dante, La Divina Commedia, Inferno.
Antonio Ferrara, Il fiume è un campo di pallone, Bacchilega Junior 2016
Fabio Geda, Nel mare ci sono i coccodrilli. Storia vera di Enaiatollah Akbari, Baldini e Castoldi 2010.
Walter J. Ong, Oralità e scrittura, Il Mulino 1986 (traduzione di Alessandra Calanchi, revisione di Rosamaria Loretelli)
Marc-Alain Ouaknin, I Misteri dell’Alfabeto, Atlante 2003 (traduzione di Antonella Borghi e Francesca Scala)
Gary Paulsen, John Della Notte, Mondadori (traduzione di Francesca Cavattoni)
La Sacra Bibbia, Vangelo di Matteo, Edizione CEI
*Con questo termine pongo una distinzione tra cultura, che riguarda le tradizioni di ogni singolo popolo, e civiltà, quel sostrato comune tra più popoli, in questo caso tutta l’Europa e le due Americhe post Colombo che dalle popolazioni europee trassero la loro identità culturale e linguistica.