Spesso scrivo di fiabe, o ne parlo, o le nomino: anzitutto perché mi piacciono.
E poi per tanti motivi: uno di questi riguarda il nostro rapporto con i simboli e con l’inconscio collettivo. Le fiabe possono essere archetipe o meno, ma hanno sempre un sapore arcano e ben radicato che tanti miti e leggende non hanno.
Le fiabe ci appartengono e noi apparteniamo loro, nella misura in cui pensiamo di saperle e di sapere come sono, soprattutto quando pensiamo che le fiabe siano stabili e incrollabili. Mentre invece le fiabe cambiano e si muovono, dentro e fuori di noi, nel tempo e nello spazio.
Una certa fiaba cambia a seconda di come viene raccontata, se è nella versione di Perrault o in quella dei Grimm, e cambia anche a seconda del traduttore e dell’illustratore.

Gustave Doré, La bella addormentata
E questo più o meno lo sappiamo: le fiabe sono un sapere orale e si adatta quindi, al momento della trascrizione così come in ogni passaggio, a chi le racconta – i passaggi troppo duri vengono elisi o attenuati, certe ambientazioni o personaggi si sovrappongono a quelli conosciuti a livello locale, certi temi si nascondono sotto stratificazioni di simboli. Poi, nei vari passaggi, alcuni simboli tornano fuori e ricominciano a parlare chiaramente.
Quello che mi sorprende oggi è invece come le fiabe parlino apertamente dei nostri terrori, dei nostri tabù – cioè alcune tra le chiusure e censure più forti che si invocano toccano sempre, inevitabilmente, regolarmente, le fiabe: un politico che chiede che non si racconti la versione “africana” di una certa fiaba, o che si tolga dalla biblioteca una versione troppo “gender”; o anche il genitore che chiede di “non rovinare” una fiaba raccontandone una forma diversa da quella conosciuta, anche se quella forma è stata resa “stabile” e univoca solo da un lungometraggio Disney.

Walter Crane, La bella addormentata
La fiaba racconta quindi l’inconscio collettivo ed è un luogo eccezionale per cogliere il rimosso collettivo: guardandoci indietro possiamo capire di cosa parla davvero un certo racconto, a livello simbolico; e guardandoci addosso possiamo capire quali sono gli elementi del rimosso, quali i tabù e le cose di cui non vogliamo che si parli.
Per esempio, la Bella addormentata. È tra le storie che conosciamo una di quelle in cui gli influssi disneyani sono più forti: la fiaba fa parte della raccolta di Perrault (1697) e attinge a una serie di simboli ben presenti nelle storie e nelle leggende europee. Nella Bella c’è il fuso e la puntura, la gelosia di chi è stato trascurato, un intero castello che cade addormentato con la ragazza, la paura/desiderio della maggiore età, c’è la confusione tra morte e sonno. Poi ci sono altre parti che non riconosciamo: dopo il bacio e il risveglio, principe e principessa hanno due figli, Aurora e Giorno, che decidono di tenere nascosti alla madre del principe, che è un poco orchessa e quindi mangiatrice di bambini. Comunque, la madre/suocera riesce a scoprire i due figli e decide di ucciderli, ma la sua malvagità viene sconfitta dal principe stesso.

Il balletto della Bella addormentata, messinscena del 2019 alla Scala: Polina Semionova nel ruolo della principessa Aurora e Timofej Andrijashenko in quello del principe Désiré.
In questo la fiaba di Disney, nel suo finire poco dopo il bacio che sveglia, riprende la versione dei fratelli Grimm (1812) e il balletto musicato da Chajkovskij (1890).
Più disneyane sono altre invenzioni come le tre madrine che assistono Aurora (la principessa in Disney e già in Chajkovskij prende il nome della figlia, che sparisce), la predominanza di Maleficent, la Strega malefica, che diventa uno dei più memorabili personaggi “cattivi” dell’animazione, e la stessa forma del castello di Aurora.
In questi passaggi è abbastanza chiaro come la storia si sia “naturalmente” semplificata, eliminando dal racconto il passaggio dei due figli e dell’orchessa cattiva, che sembra ai nostri orecchi di narratori moderni abbastanza ridondante o un po’ attaccato: di più, tiene al centro la sola protagonista femminile, dando al Principe azzurro un ruolo assolutamente ancillare (nella seconda parte della fiaba di Perrault si ribella invece contro la propria madre).

Briar Rose, La bella addormentata
Perché questa semplificazione non è avvenuta già con Perrault? Perché come per altri Racconti di mamma Oca, la partenza si trova nel Pentamerone di Giambattista Basile (1636), dove si intitola Sole, Luna e Talia: Talia è il nome della principessa che cade morta/addormentata, e viene allora abbandonata dal padre che la chiude in un castello, dove verrà trovata tempo dopo da un re fuori per cacciare. Questo re entra nel castello e approfitta della principessa, che rimane però addormentata: e lo rimarrà fino al parto, per essere svegliata solo da un morso dei suoi gemelli nati da quello stupro, Sole e Luna.

Arthur Rackham, La bella addormentata
La fiaba di Basile prosegue poi in maniera simile a quella di Perrault, dove però al posto dell’orchessa madre c’è una regina moglie, che verrà anch’essa ripudiata e uccisa, per il felice ricongiungimento di Talia con l’uomo che l’ha violata.
Il pubblico di Basile e quello di Perrault sono diversi, e così nella versione destinata ai salotti francesi scompaiono lo stupro e l’adulterio, che potevano essere raccontati a Napoli ma non a Parigi: così lo stupro diventa un bacio, particolare che suona, giustamente, raccapricciante.

Chris Beatrice, Sole Luna e Talia
Eppure, in questa versione (e in altre leggende, cui a sua volta Basile attinge), le cose hanno una loro logica: il fatto che a svegliare Talia o la bella sia non un bacio di un estraneo, ma i figli cui ha dato vita racconta bene la nostra umana capacità di rigenerarci, di ridarci vita, di trovare una connessione con noi stessi o tramite i figli. Quel destarsi non è frutto di un incantamento d’amore – perché l’amore ha il solo scopo, a livello simbolico, di fecondare, di mettere un seme per la trasformazione e il risveglio. E tornano anche i nomi, Aurora, come il giorno che desta; o Sole e Luna, come ciò che percorre, di nuovo unito, il cielo.
Fin qui, stiamo raccontando il percorso storico con cui i simboli si nascondono e si svelano: il presente, la ricezione, mi interessa forse ancor di più; la genesi di Bella addormentata è ben conosciuta e documentata, eppure ogni volta che la cito suscita scandalo e viene rigettata. Non si vuole perdere quella magia del bacio, e si vuole dimenticare lo stupro: non importa che ci sia una continuità, una parentela filologica, si preferisce ricominciare da capo, dire che il bacio è meglio e basta.
Ciò che ci dà fastidio è quel sonno, quella lunga notte di Bella/Aurora/Talia: e preferiamo che finisca col bacio, noi lettori moderni. Perché dentro il sonno non leggiamo più una morte sospesa, ma un limbo atroce, che parla di noi: quel sonno è una vita sospesa, che non riusciamo a raccontare e per cui non abbiamo storie.

Henry Meynell Rheam, La bella addormentata
Le parole mancate però, come a volte capita, si trasferiscono sulle immagini: il film disneyano ha un immaginario visivo fortissimo, scelta deliberata voluta da Disney nel momento in cui ha scelto di portare in primo piano per quel film un ruolo di solito di secondo o terzo piano, quello del paesaggista, o disegnatore di fondi. Si tratta di Eyvind Earle, che per il film del 1959 disegna sontuosi scenari, resi ancora più evidenti dalla nuova tecnologia adottata, visto che è il primo in Technorama, con schermi ancora più grandi e avvolgenti dei precedenti.

Eyvind Earle, scenari per La bella addormentata
Il lavoro di Earle cita diversi artisti prerinascimentali, contrapponendo allo stile disneyano rotondo e morbido le punte degli alberi e delle armi, dei cancelli e dei cappelli. Il paesaggio non è minaccioso ma frammentato, interrotto, come la linea frastagliata di un elettrocardiogramma. La tensione di Aurora non si trasferisce nella linea musicale (a proposito, è quella di Ciajkovskij) ma nei colori e nelle luci, in un ambiente che dormendo è meno placido dei suoi personaggi.

Eyvind Earle, scenari per La bella addormentata
Perché ci dà fastidio quel sonno? Perché continua a tornare come fantasma da esorcizzare (mi vengono in mente altre storie, dai Risvegli di Oliver Sacks alla Casa del sonno di Jonathan Coe, da Sonno profondo di Banana Yoshimoto a Fidanzata in coma di Douglas Coupland fino a vari horror, tralasciando una saga sadomaso di Anne Rice ispirata direttamente alla Bella addormentata), e come realtà presente – come assoluto da giudicare solo per mezzo della bioetica e delle sentenze. E lì dove vige solo l’assoluto, dove sottraiamo la possibilità di storie individuali, è più facile scandalizzarsi ed esorcizzare: e allora il sonno può essere svegliato solo da un bacio, e da niente di meno gentile e amoroso.
Eppure quel sonno della fiaba è un’altra cosa e assomiglia ai paesaggi di Earle: è una dimensione dove le cose non si sono riconnesse, come accade ne L’anima smarrita di Olga Tokarczuk e Joanna Concejo (Topipittori, traduzione di Raffaella Belletti): “Se qualcuno fosse in grado di guardarci dall’alto, vedrebbe che il mondo è pieno di persone che corrono in fretta e furia, sudate e stanche morte, nonché delle loro anime in ritardo, smarrite, che non riescono a star dietro ai loro proprietari.”
Quello smarrire l’anima, quasi morti, ha molto a che fare con la dimensione riparativa delle fiabe, e con il nostro timore del sonno: è qualcosa che ci turba, come è turbato lo stesso Jan, il protagonista di questo libro illustrato, che si rassegna all’attesa “finché alla fine un pomeriggio qualcuno bussò alla porta e sulla soglia comparve la sua anima perduta – stanca, sporca e piena di graffi.”

Joanna Concejo, interno per L’anima smarrita, Topipittori
Perché alla fine di quel tipo di sonno ci sono cicatrici visibili, che vanno insieme con la vita che ha ritrovato il suo tempo.