di Elena Iodice
Ci sono favole che sembrano sogni.
Hai un bel daffare a cercare una spiegazione, un nesso, una logica ma questa rimane nascosta. O forse, davvero, proprio come nei sogni, un senso non c’è.
È il caso della Favola del Serpente verde di Goethe, racconto pubblicato nel 1795 sulla rivista tedesca Die Horen («Le Ore»), edita da Friedrich Schiller. Fu posta a conclusione della novella Conversazioni di emigranti tedeschi (1795) e molti, da quel momento in poi, si dannarono a trovare una spiegazione a quella successione onirica di scene crepuscolari.
Io credo, invece, che questa fiaba vada attraversata (il termine non è casuale) proprio come un sogno.
C’è un barcaiolo, c’è un fiume, soprattutto, due fuochi fatui, tre cavoli, tre carciofi e tre cipolle.
C’è un serpente che, ingoiando le monete tintinnanti prodotte dal tremolio dei fuochi fatui, diventa luminoso.
Ci sono tre nicchie contenenti tre statue di altrettanti re seduti, una d’oro, una d’argento e una di bronzo e poi una quarta, scolpita in piedi, composta da un miscuglio disarmonico di questi tre metalli. Proprio dalle fenditure dorate che tengono insieme i pezzi di questo quarto re, come un enorme vaso Kintugi, uscirà il finale della storia.
C’è una lampada che non getta ombre.
C’è una vecchia impaurita e un cane morto che una lampada magica trasformerà in una statua di onice.
E c’è la bella Lilia col suo tocco capace di uccidere ogni essere vivente ma anche di dare vita alle pietre preziose.
E un maldestro gigante, che con la propria ombra sottrae alla vecchia moglie del barcaiolo una cipolla, un cavolo e un carciofo (e che, a storia quasi finita, farà tremare le gambe di chi aveva già pregustato il “vissero tutti felici e contenti”); e un bel giovane che ha perduto corona, scettro e spada e che muore gettandosi tra le braccia della bella Lilia, geloso del cane che questa aveva stretto al petto.
E quasi alla fine, una processione guidata dal serpente verso il fiume a cui è affidato il potere di riportare la speranza.
E di nuovo il serpente che si trasforma in ponte prima di sacrificarsi perché nella favola ci sia un lieto fine.
E come accade nei sogni in cui i luoghi si spostano, migrano, fluttuano ecco che il tempio inizia a tremare e viene trasportato dal fiume, unico personaggio che sembra rimanere sempre lì, dove lo si è incontrato all’inizio.
E poi c’è l’alba che avvolge la fine e, come un nuovo inizio, accompagna il giovane, tornato alla vita, a cui sono consegnati di nuovo scettro, corona e spada dai tre re affinché possa finalmente sposare la bella Lilia.
E il quarto re che crolla, con le venature d’oro leccate dai fuochi fatui.
«Hai dimenticato che la quarta forza è l’amore», dice il giovane re al vecchio, ma questi osserva: «L’amore non domina ma forma, e questo è ancor più».
Il racconto finisce, l’alba cede il passo al giorno, gli occhi si riaprono. La mente è confusa, cerca di rintracciare un senso, una morale. Ma, forse, come si diceva all’inizio, la morale non c’è.
Del resto, già nel 1797, deridendo gli sforzi degli esegeti, che cercavano verità tra quelle righe, Goethe scrisse a Schiller: “più di venti personaggi intervengono nel racconto. Che fanno essi dunque tutti quanti? Il racconto, amico mio”.
Finisco di leggere e subito, con l’atteggiamento tipico della studiosa razionale, corro a cercare come, negli anni, è stata illustrata questa storia. Con mia grande sorpresa, scopro che c’è pochissimo: quasi sempre la fiaba è associata ad un quadro di Hermann Hendrich, raffigurante il serpente e due dei fuochi fatui.
Penso che, in fondo, questo abbia un suo senso: se Goethe stesso non ci consegna una traccia in grado di sbrogliare la matassa del significato, come possono quelle scene essere tradotte in immagini precise?
Nel rileggere il testo di Goethe, le immagini che si formano nella mia testa hanno i contorni tremuli e sfumati che, di notte, hanno i sogni. E allora, come si dipinge un sogno?
Nella storia dell’arte moderna, molti si sono interrogati sulla possibilità di dare una forma alle immagini sconnesse, surreali, appunto, che animano, non sempre pacificamente, le nostre notti.
Ancora una volta quelle immagini tornano a pescare nel reale. Sono mani, alberi, orologi, libri, spesso rappresentati fedelmente, in modo quasi fotografico. Ma il loro ordine è scomposto, illogico, a tratti disturbante. Non c’è un filo, non una traccia di racconto.
Affidandomi nuovamente alla ragione, imposto una ricerca per immagini.
Come si dipinge un sogno?
Decido, per una volta, di scorrere quelle immagini senza attivare la parte razionale del mio cervello. Le attraverso, come il barcaiolo attraversava il fiume, incontrando lungo il tragitto tra le due sponde, i personaggi di quei racconti privi di logica.
Vedo uomini pennuti, draghi, astri, mari, barche, occhi, mani, foreste, chiavi.
Si susseguono, uno accanto all’altro, come gli attori della fiaba di Goethe.
Come si dipinge un sogno?
E proprio mentre mi affanno a trovare il bandolo di quel filo che in qualche modo mi ha portato sul ciglio dei mondi surrealisti, ecco una voce che viene in mio aiuto, aprendomi uno spiraglio capace di fornirmi una direzione. Proprio come avviene nei sogni.
La voce è quella di Daniela Iride Murgia, alla quale, in una delle nostre lunghe chiacchierate a cuore aperto, avevo confidato le fatiche a cui questa storia mi stava costringendo.
Come si dipinge un sogno?
Mi racconta, la Murgia, di essere inciampata in una frase di Goethe tra le righe del libro che sta leggendo, Il rosa Tiepolo di Roberto Calasso. Me la consegna come un dono ed immediatamente questa mi spalanca una porta: “Pensare è più interessante del sapere ma non del guardare”.
“Forse la fiaba più che essere letta dovrebbe essere guardata con le orecchie” mi butta lì Daniela.
Con un salto onirico, dall’oggi che mi vede seduta col telefono in mano, rivedo Maria Lai davanti al muro che doveva accogliere una delle sue installazioni.
Un operaio la vede, in silenzio, assorta davanti a quel muro: impaziente di finire presto il lavoro, le chiede a cosa stesse pensando.
«Niente, non penso a niente, io ascolto il muro perché è il muro che decide, non sono io, non è lei».
«Il muro? E il muro pensa?» le risponde l’operaio.
«Io non lo so se pensa ma so che mi dà delle indicazioni».
«Ma lei lo ascolta con le orecchie?»
«No, lo ascolto con gli occhi».
«Ma come si fa ad ascoltare con gli occhi?»
«Se leggi una pagina tu la stai ascoltando con gli occhi».
(da Inventata da un Dio distratto, documentario, regia di Marilisa Piga e Nicoletta Nesler)
Eccola la chiave, allora: più che leggerla la fiaba di Goethe va ascoltata così, con gli occhi.
In questo gioco di rimandi assurdi, in questo saltellare di qua e di là, torna di nuovo la Murgia, autrice di un libro su Max Ernst ancora non edito in Italia, Max Ernst, el hombre pajaro.
Nel descrivere uno dei maestri del surrealismo, Daniela scrive:
A Max piaceva arrampicarsi
in cima ai pensieri
e usare metri e metri di fantasia.A Max piaceva spiare gli angoli nascosti, ingrandirne i dettagli e liberarli
perché volassero nel regno dei sogni.Dai libri decollava per paracadutarsi sulle vette dell’impossibile, per approdare in silenzio
in un luogo pieno e fondo, subacqueo ed alpino……fatto di piante bestiali, papà cavallucci, cavalli e cavallette,
lune imbizzarrite.
Ed è di nuovo Maria Lai a consegnarmi, alla fine di questo peregrinare, il senso di questa assurda fiaba del serpente e della bella Lilia: “Perché fai cose assurde?” le chiesero.
L’arte fa sempre cose assurde. Non c’è un perché.