Sposo l’idea di Marx e ritengo che dietro ogni sostanziale cambiamento ci sia una lunga lotta di classe, laddove sempre è vivo il conflitto, sociologicamente inteso, tra operai e capitalisti.
È motore di azione e pensiero sin dall’Ottocento e io ne trovo traccia, solco di mani contadine, molto consistente, anche nelle fiabe classiche.
Molte fiabe, che non abbiano come motore la scoperta di sé, hanno come spinta propulsiva la rivalsa sociale e raccontano di un’evoluzione in positivo in cui i rapporti di potere si ribaltano grazie all’intraprendenza eroica dei personaggi protagonisti, per giungere allo scambio totale delle parti, in cui il mugnaio divenga marchese, la servetta regina, la guardiana di oche principessa.
Nel mezzo si nutrono di magia, passione, colpi di scena e aiutanti magici, ma al principio, sempre, c’è uno sfruttato e uno sfruttatore, una condizione ingiusta, una povertà estrema e di contro una superba e prevaricante ricchezza.
Talvolta lo sguattero divenuto principe dimentica il dolore dell’essere sfruttato e ripropone sul nuovo anello debole della catena lo stesso modello subìto sulla propria pelle (e allora interviene il destino a riportare l’equilibrio tra ingiustizia e giustizia), in altre occasioni la povera mendicante si mostra munifica e non si cura di allargare la forbice sociale, punendo lo sfruttatore in una condizione di sudditanza, bensì si mostra forte della propria, conquistata, posizione sociale e governa con giustizia e lungimiranza.
Altre volte, infine, è solo conoscendo la sofferenza di un contesto del tutto estraneo a quello consueto che si può riconquistare la posizione sociale acquisita per nascita e poi persa. In queste occasioni, non rare, in cui il re di antica stirpe cade in rovina a causa della propria superbia e del proprio ottuso classismo, è grazie all’intervento di qualche fata saggia che “il ricco” conosce la durezza della vita di stenti e lavoro e si redime verso una visone di eguaglianza e parità di diritti.

The Brothers Grimm, “The Bremen Town Musicians”, di Lisbeth Zwerger, 2007 Miniedition
La fiaba si nutre di tipi e archetipi ma li sublima. Attinge a piene mani dalla realtà, ritrae uomini e donne, spesso bambine e bambini, nelle loro crude sembianze, lacere, sporche e smunte, lo fa scendendo nei dettagli più dolorosi tanto che a leggere sembra di sentire i morsi della fame, i brividi di freddo, la pelle lacerata dalla terra, dal ferro, dai bastoni degli spazzoloni. Eppure tutta questa realtà dà luogo a tipi universali, a volte a un servo a volte un contadino, a volte un cacciatore, a volte un cuoco, e di volta in volta li sublima in sembianti interscambiabili capaci di prendere in mano la propria esistenza dandole una svolta radicale, senza, il più delle volte, avere alcuna certezza del proprio futuro.
E per di qui si giunge a I musicanti di Brema, che è quanto di più vicino a una favola si possa cercare in una fiaba, laddove gli animali ragionano all’uso umano, in cui suonano strumenti, in cui sono dotati di parola. Sono quattro. Sono quattro tipi fiabeschi, sono persone. Quattro sfruttati, quattro non più utili agli ingranaggi della macchina capitalista. Non sono più capaci di sostenere i ritmi di una fatica dura, di un lavoro imposto, che del lavoro ha solo la forma e non la sostanza, che non concorre a migliorare la società ma solo l’interesse del singolo e che, soprattutto, non prevede un compenso che non sia la possibilità di sopravvivere.
Dal canto suo, il padrone non conosce la gratitudine, non guarda al passato, piuttosto si concentra sul proprio futuro prossimo e su quello che da quel che resta dei suoi lavoratori potrebbe ricavare. Persino le pelli, le carcasse, possono fruttargli altro denaro, oppure risparmio, liberandosi dal peso di nutrirli, per quanto modesto. La soluzione per sfruttare fino all’ultimo istante questi quattro, volenterosi, lavoratori è sopprimerli.
E qui entra nella trama la rivalsa e la nutre, le dà lo spago che il piegarsi al volere dei potenti non avrebbe generato.
Il primo dei quattro, l’asino, intuisce la brutta fine cui è stato da altri destinato e attua una ribellione pacifica che non implica una vendetta, piuttosto mette in campo una strategia d’azione lucida e intelligente, oltre che un sogno.

“I musicanti di Brema”, Katrin Stangl, da un racconto popolare, 2009 Maurizio Corraini
Ne I Musicanti di Brema il rapporto, e la conseguente lotta di classe, è propriamente tra proletariato (i quattro musicanti) e borghesia (i quattro padroni) ma non si nutre di antagonismo, piuttosto dell’anelito alla libertà di chi ha provato la coercizione da chi l’ha esercitata con violenza e con l’avallo della legge, la legge sociale, in questo caso.
I poveri nelle fiabe non hanno scampo. Non hanno nulla a cui appellarsi se non il buon cuore dei padroni. Il buon cuore è accezione ricorrente nel lessico fiabesco atta a definire un uomo o una donna di potere che attua nei confronti dei suoi sottoposti un comportamento socialmente decente. Buon cuore che può facilmente ingrigirsi, indurirsi per capriccio, per dimenticanza, per egoismo. I poveri, dunque, sono in balìa dei moti d’animo del singolo, e si muovono in una società che ha tutto l’interesse di restare immobile e identica a sé stessa. Quindi ingiusta.
I quattro lavoratori, consolidato sulle stesse basi e sullo stesso interesse un piccolo collettivo di esseri pensanti e ribelli, cercano di creare uno strappo nell’ordito costituito: si uniscono, formano un gruppo, comprendendo come assieme abbiano più possibilità di affermare le proprie ragioni, essere incisivi all’interno del proprio contesto rurale, urlare, manifestando a viva voce, la propria presa di coscienza.

Gerda Muller, “Les quatre musiciens de Brême”, L’école des Loisirs, 2014
La fiaba trascritta dai fratelli Grimm è più che nota, per ripercorrerne le tappe verso Brema camminerò sul sentiero dell’edizione di Orecchio acerbo, tradotta da Anita Raja e illustrata da Claudia Palmarucci.
Un vecchio asino che per il proprio padrone non valeva più il fieno che mangiava, un Can-Da-Presa col fiato corto non più buono per la caccia che il proprio padrone voleva ammazzare di botte, un gatto Leccabaffi dai denti spuntati non più abile nel cacciare i topi che la padrona voleva annegare e un gallo Crestarossa buono, ottimo, per fare il brodo. I primi tre hanno lavorato duramente per i propri padroni, l’ultimo riconosce il valore della propria vita a prescindere dai desideri e dalle necessità dei più forti.

Illustrazione di Claudia Palmarucci da “I musicanti di Brema”, Orecchio acerbo, 2015
Assieme condividono l’idea, che è una presa di coscienza, del dover sfuggire a una condizione in cui il sopruso è stato a lungo perpetrato a loro spese e rischia di concludersi in quello supremo. Assieme partono per Brema in una marcia che ha tutto il sapore della ricerca della libertà, dell’affermazione di sé e del proprio ruolo all’interno della società che li ignora e sfrutta; opponendosi al volere di un padrone che hanno, fino a quel momento e senza avere nulla in cambio, contribuito a far prosperare.
L’asino con coppola e martello, il gallo con in mano una chiave inglese, il gatto con un tascapane alla vita adatto a contenere e poi spargere sementi, il cane con un bastone per sostenere un lungo cammino e badare alle greggi. Strumenti da lavoro operaio che divengono strumenti portatori del sogno, dei desideri, strumenti musicali. E mentre s’avviano, in fila indiana, dei pesci si mostrano a pelo d’acqua come in ascolto di una predica. Ho visto in essi una traccia agiografica, memore di quel santo (Sant’Antonio di Padova, predica ai Pesci) che ad essi aveva spiegato il valore divino della libertà quando gli uomini si erano mostrati sordi alle sue parole.

Illustrazione di Claudia Palmarucci da “I musicanti di Brema”, Orecchio acerbo, 2015
Nella notte trovano rifugio in un bosco, abbastanza distanti dai luoghi da cui fuggono ma ancora distanti da Brema. Il bosco è buio, fitto, del tutto estraneo. Male alloggiati, i quattro animali scorgono una luce e verso di essa riprendono il cammino; dietro di essi una Fiumana di persone s’accoda in massa verso quella luce, alba del sole dell’avvenire, segno di un valore universale del soggetto sociale, segno del valore universale della libertà.

Illustrazione di Claudia Palmarucci da “I musicanti di Brema”, Orecchio acerbo, 2015
Di antieroi ce n’erano già stati dunque tra le prime pagine di questa fiaba, sebbene mediocri nella loro grettezza da padroni, personificazione al maschile e al femminile della borghesia ingerente sul proletariato. Quelli cui i quattro musicanti operai si trovano di fronte, raggiunta l’agognata fonte di luce, sono invece briganti. Briganti che non solo godono del frutto del lavoro altrui ma l’hanno con tutta probabilità rubato a chi, a sua volta, l’aveva accumulato con la prevaricazione e la violenza. La Palmarucci sceglie di ritrarli ben vestiti, compiti ed eleganti. Sono briganti perbene, così tanto ben vestiti e così tanto per bene da ricordare molto naturalmente i briganti del nostro tempo. I briganti sono alle prese con un banchetto, una festa, e sono in tanti. Come potrebbero gli eroi male assortiti, anziani e deboli fronteggiare quell’orda così ben nutrita? “Uniti i deboli diventano forti” hanno scritto Jacob e Wilhelm, e questo principio è valido nella Storia così come nella tradizione fiabesca, così come in quei miti antichi e classici in cui affonda la radice comune di tutte le fiabe europee.
E dunque è la volta della celebre torre: il cane si mette sulla groppa dell’asino e il gatto monta su quella del cane. Il gallo infine vola in cima a tutti e assieme, all’unisono, si esprimono con tutta la voce in loro possesso. L’urlo che ne consegue è così improvviso e sconquassante da disperdere i briganti in preda al terrore.

Illustrazione di Ofra Amit da “The Musicians of Bremen”, in “A Wolf, a Princess and Seven Dwarves”, Kinneret Books
I musicanti suonano strumenti molto accordati alla ricerca di una musica comune e popolare. Liberi si esprimono. Unendo le forze, e scaltramente, si appropriano di quello che, a ben guardare e andando indietro nella produzione del capitale è con tutta probabilità il frutto del loro lavoro, laddove con ‘loro’ si ritorna al tipo fiabesco del lavoratore rispondente alle caratteristiche che ne fanno un personaggio universale il cui destino si intreccia strettamente a quello della società in cui si muove, per fortuna, intraprendenza, disgrazia, coraggio, magia. È perfino magica la potenza con la quale esprimono il loro esserci, assieme danno luogo a una voce inattesa, sorprendente, che afferra gli animi dei gretti, li scuote e confonde, tanto da dar loro sembianze mostruose, atterrendoli: chi può mai mostrarsi così potente e terrificante se non un essere magico, una strega? Non certo quattro vecchi animali lavoratori. È qui la forza della rivalsa: sorprende, lascia attoniti.

Illustrazione di Katrin Stangl da “I musicanti di Brema”, da un racconto popolare, Maurizio Corraini, 2009
Con la conquista di un proprio luogo e di un proprio spazio si conclude lietamente la fiaba. E a chi per ultimo l’ha raccontata – ancor la bocca non s’è raffreddata. Così si chiude la fiaba dei fratelli Grimm. Si tratta di una chiusa classica che fa riferimento ai cantastorie della tradizione orale germanica, e implica la volontà di sottolineare quanto spesso questa storia sia stata raccontata e da quanti diversi autori. Ma quello che voglio qui sottolineare è che queste fiabe nei decenni, nei secoli, sono state fiabe da focolare, raccontate nelle piazze dei villaggi o tra l’erba dei campi da voci contadine. Il tipo fiabesco non è solo quindi protagonista delle fiabe ma se ne fa portavoce attivo, cantastorie, raccontando della ribellione dei sottomessi e degli sfruttati e auspicando, facendolo, la propria.

Illustrazione di Claudia Palmarucci da “I musicanti di Brema”, Orecchio acerbo, 2015