Il bianco è lo spazio e il nero è il tratto che lo contiene. Potrei dire anche che il bianco è lo spazio e il nero è il limes che ne determina il punto di fuga o la profondità. Nei testi a stampa della contemporanea editoria per bambini si danza attorno a questa semplicità; attorno a questo passo a due tra bianco e nero, si articolano albi meravigliosi e completi, carichi di senso e significanti. Con le ovvie eccezioni.
Passo concitato e trafelato quello del narratore preistorico che stampa in negativo sulla parete rupestre la propria impronta: un confine nero carbone a delimitare lo spazio di un palmo bianco. Non quello dell’esploratore precedente, non quello del guerriero, proprio il suo, a illustrare una storia diversa da ogni altra, in un’unica immagine.
Passo molle, cauto, quello che operava invece in una polka di colore. Schiena curva su codici impreziositi d’oro in cui l’immagine apriva le danze, per un testo che occupava gran parte dello spazio a disposizione sulla pagina, con lettere miniate (quindi in un rosso derivato dal piombo) ornate nei minimi dettagli, in cui l’illustrazione, colorata a mano, era imperiosa, rappresentava narrando investita di simboli, facendo da didascalia al testo, essendone corollario.
Con l’invenzione della stampa il passo torna a due e l’immagine diventa dialogante: è il momento delle incisioni, il ritmo con le parole si fa teso, vibrante. Lo diceva Leonardo da Vinci: “La pittura è una poesia muta, e la poesia è una pittura cieca”, si comincia a comprendere l’importanza di una illustrazione che non sia un bene staccato dal contesto o puro ornamento. Immagine e testo cominciano a parlare tra loro in un discorso fitto e ritmato, consapevole.
L’inchiostro è nero seppia, è parola e tratto, è lo stesso, non vira, non sfuma, in due modi del tutto diversi illustra e racconta. Solo che mano a mano che il testo s’arricchisce di dettagli diventa più complesso, mentre l’illustrazione a furia di dettagli esplica: il pensiero leonardiano, così inteso da Bland, che nel suo A History of Book Illustration cita la celebre frase del maestro del XV sec.(Children’s Picturebooks, the art of visual storytelling, Salinsbury, Styles pag. 11), si esplica e ben si compendia con le litografie di Thomas Bewick, con i suoi “tale-pieces”: illustrazioni naturalistiche in cui il bianco e il nero sembrano essere condizione necessaria e sufficiente a dare movimento narrativo all’immagine.[pullquote align=center]
And you who wish to represent by words the form of man and all the aspects of his membrification, relinquish that idea. For the more minutely you describe the more you will confine the mind of the reader, and the more you will keep him from the knowledge of the thing described. And so it is necessary to draw and to describe.[/pullquote]
Tra tutte, ne ho scelte due “il cacciatore di volpi” e “il cervo”; sono consapevole che esse non abbiano un legame oggettivo ma mi piace immaginarle speculari. Nascono enciclopediche, come tutte le altre, fanno parte de “La storia naturale dei quadrupedi”, ed esattamente come tutte le altre si scoprono per nulla didascaliche, piuttosto racconti. Un cane da caccia sembra aver fiutato una pista, il suo slancio lascia pensare a un momento di stasi precedente, interrotto da moto istintivo elevato all’ennesima potenza dall’addestramento. Si muove, scatta, su due sfondi: il primo immediatamente dietro di lui, fisso roccioso e imponente, nasconde alla vista un bosco rappresentato alla maniera romantica (siamo alle porte del 1800) in parte rovina, in parte fiorente. Ogni piano è uno stampo a sé stante, che corrisponde a un livello a sé stante, e assieme contribuiscono a dare profondità, con il semplice utilizzo di linee dai versi opposti o speculari. Il nero opera in chiarezza dell’immagine, esse sono vive. Come vivo è l’occhio del cervo (anche qui i livelli sono tre, prima a sé stanti, poi all’unisono) che suggerisce il movimento all’orecchio, il quale sembra aver percepito l’arrivo del cane, del cacciatore, e sembra vibrare, trasferendo nelle linee oblique del manto una tensione pronta alla fuga. Il tronco dell’albero, che poteva dirsi morto e che invece si corona di nuovi e fitti germogli, attira il nostro sguardo su un altro piano narrativo e il cuore s’appesantisce, perché un altro cervo, meno guardingo, corre proprio verso sinistra e, lo temiamo, oltrepasserà il limite della pagina per andare verso la propria fine.
L’immagine non si limita a descrivere il dettaglio, ma suggerisce una narrazione – cioè una scansione temporale che permette il ritmo e la nascita della danza tra bianco e nero, tra testo e immagine.
Quando Arthur Rackham illustrava non lesinava nei dettagli: abiti da ballo, e qui il ballo è il valzer, in cui a ben guardare si scoprono i ricami più raffinati, tono su tono di colori tenui in dozzine di varianti e trasparenze; particolari che raccontano e che contribuiscono a rendere l’immagine capace di raccontare, anche se considerata a sé stante, una storia, un’altra storia o proprio quella che illustra.
Rackham il colore lo aggiungeva post stampa, a mano. In questo nodo tecnico si innesta lo sguardo autoriale, capace di scioglierlo per tradurlo in una scelta stilistica. Il limite del medium posto da ragioni tecniche o economiche determina la ricerca di soluzioni creative e induce l’autore a plasmare uno stile peculiare, legato al medium o al suo formato. Si parla una lingua che cambia e si trasforma in una variante, un dialetto. E a sentirli, certi dialetti, sono musica.
Per Cenerentola, ma anche per La bella addormentata nel bosco, nell’edizione del 1919, Rackham usa il bianco e nero, fatta eccezione per alcune tavole in tricromia. il nero di china s’adagia sul bianco immortalando movimenti e profondità: gli orli sfrangiati delle povere vesti di Cenerentola, i fili di paglia che pendono dalla sedia consunta; i ritagli si muovono come su di un palcoscenico: un quadro da solo, un’unica silhouette, basta a raccontare la fretta della ragazza mentre abbandona il castello, una scarpetta sì e una no: è tornata alla sua vita di sempre, la magia è terminata. Nel momento della magia fanno capolino degli ocra intensi, dei verdi argentei, dei rossi vittoriani a dare ancora più profondità e risalto agli istanti irripetibili, la magia colora ma è effimera, il bianco e nero suggellano con un inchino e un bacio la realtà dell’eterno amore.
È del 1919 l’italianissima Viperetta di Rubino che si distingue per i suoi tratti vittoriani, per l’art nouveau che serpeggia tra i suoi riccioli. Viperetta non è propriamente una bimba ribelle, è piuttosto simbolo di una fanciullezza che rientra nei canoni dell’epoca ma al contempo li rifugge. Il colore campeggia in tutte le tavole del suo formativo viaggio sulla luna, dal quale rientra matura da capricciosa qual era partita, mentre il bianco e nero è di tutte le 48 vignette al tratto che aprono ogni capitolo e che ne anticipano, in pochissimo spazio, la narrazione. Ciascuna ha una sua pregnanza e talvolta, sono dirompenti, cercano di travalicare lo spazio concesso loro dalla riquadratura a filetto, ci stanno strette.
Quella in cui, per esempio, Viperetta fa la linguaccia suggerisce una tensione al futuro, lo spazio bianco cui la linguaccia si rivolge, da affrontare con irriverenza. Nella copertina delle varie edizioni, invece, il bianco e nero convivono con il colore, con un rosso tipografico che marchia i vestiti di Viperetta e la sua bambola, mentre la luna e i suoi abitanti rimangono nel bianco e nero, come a voler sottolineare il carattere tutto terreno della bambina e dei suoi oggetti.
Nel Novecento i bambini entrano nel mercato e ne rappresentano una buona fetta: si rivolgono a loro i caroselli pubblicitari, si pubblicano i celebri giornalini (che divengono strumento di propaganda), sono insomma al centro dell’interesse di molti, editori compresi (I libri per ragazzi che hanno fatto l’Italia a cura di Hamelin). Nel 1920 si dà alle stampe la versione definitiva de Il Giornalino di Gian Burrasca (precedentemente edito a puntate su Il Giornalino della domenica), che nel bianco e nero delle sue illustrazioni rispetta la sua forma e la narrazione diaristica. Le illustrazioni intra e intertestuali supportano il testo e lo incrociano nel linguaggio in numerose occasioni; il gioco del bianco e del nero rinforza il “simulacro” diaristico, il gioco del libro scritto (e disegnato) da un bambino – la mancanza del colore rimanda con più forza a un diario leggero e semplice da realizzare.
Il linguaggio di un libro, di un albo illustrato nella fattispecie, può modificarsi, dicevo, per numerose ragioni. Accade spesso (tra gli anni 50 e 60) che per mero risparmio si debbano stampare alcune illustrazioni in bianco e nero. Ci sono autori che subiscono l’esigenza commerciale e semplicemente alternano i blocchetti di testo alla pagina illustrata, laddove sia possibile, altri che, invece, attorno al limite costruiscono un’occasione e inventano un altro linguaggio, una soluzione linguistica alternativa e originale.
Ne Il giorno in cui la mucca starnutì (ed. or. 1957) James Flora alterna alle pagine in bianco e nero (doppie pagine), quelle a colori (rosa, arancio, verde e nero), innescando una catena di causa (colori) effetto (bianco e nero) che è un vortice di ritmo, trasmette e comunica con la stessa efficacia sia quando può aggiungere sia quando deve necessariamente togliere senza mai smarrire la propria pista stilistica. (Per un bell’approfondimento sul mock-up rimando a questo articolo)
Verrebbe da dire Fortunatamente, lo stesso accidente capitò a Remy Charlip (ed. or. 1964) che alternando le tavole fortunate a quelle sfortunate permea l’intero albo di un ritmo efficacissimo. La fortuna di Ned, il protagonista, s’accompagna ai colori delle illustrazioni, alla sfortuna, invece, Charlip riserva il bianco e nero. Un’anticipazione di questa scelta sta proprio nelle pagine iniziali dell’albo che apre con due nuvole nere, che lì per lì non fanno molta impressione, fortunatamente, poi, nelle due pagine seguenti, su un letto d’arancione e giallo, risplende un sole sorridente… epperò il colophon trova spazio in un cielo grigio e pesto giacché le nuvole hanno, sfortunatamente, raggiunto e quasi del tutto coperto il sole che, inerme, non può che subirne il buio…
Da La biblioteca di Lavoro, sono ormai gli anni ‘70, quindicinale curato dal gruppo sperimentale coordinato da Mario Lodi, sono numerosi gli esempi che potrei trarre per comunicare un utilizzo del bianco e nero che prende le mosse dal condizionante limite tipografico per arrivare a un’utilissima impostazione pratico/didattica. I quaderni di lavoro prevedevano una parte molto attiva da parte del bambino cui spesso era proposto di replicarli in varianti e riletture. Molto più semplice era affrontare l’intero processo senza l’intervento del colore.
Lo zoo (nr. 37 del 1975, illustrato da Ivo Sedazzari) è una storia di sole immagini. A sinistra il disegno di un animale in gabbia che, sullo sfondo, malinconico sogna, mentre in primo piano le silhouette degli spettatori umani indicano o rimangono immoti. A destra il pensiero, il ricordo dell’animale in gabbia che è sogno di libertà riportato su carta con un’immagine fotografica ripresa in natura.
Così usato, il racconto figurato diventa una lettura del “reale” rappresentato che abitua il bambino a osservare, riflettere, collegare i fatti
Il bianco e nero dei quaderni di lavoro, letti soprattutto nelle scuole, parte dal presupposto che il bambino possa ri-fare, possa continuare quel quaderno con il proprio. È in questo contesto che la mancanza di colore è un invito esplicito al lettore a completare o continuare l’opera; è, ridotto all’osso, il pensiero di Freinet, della scuola del fare, che la attraversa in un rinnovamento pedagogico.
Il periodo di convivenza tra bianco e nero e colore è lunghissimo ma di fatto le soluzioni formali derivate da esigenze di tipo pratico sono state talmente tante e talmente tanto raffinate da riservare al bianco e nero il carattere dell’eleganza, del lineare. Questa convivenza non è ancora finita, è una danza perfetta in cui nulla è superfluo e tutto racconta.
[…] Passo concitato e trafelato quello del narratore preistorico che stampa in negativo sulla parete rupestre la propria impronta: un confine nero carbone a delimitare lo spazio di un palmo bianco. Non quello dell’esploratore precedente, non quello del guerriero, proprio il suo, a illustrare una storia diversa da ogni altra, in un’unica immagine. [Continua a leggere su Libri Calzelunghe] […]