Insieme a Bianca Lazzaro, traduttrice letteraria e editor, coordinatrice dei volumi della collana Fiabe e storie della casa editrice Donzelli, torniamo a occuparci del lato oscuro delle fiabe e della letteratura popolare. Intervista a cura di Barbara Ferraro e Carla Ghisalberti.
Libri Calzelunghe ha dedicato un’ampia serie di articoli ai “libri disobbedienti”, libri in cui la crudeltà, i “cattivi” e la “cattiveria” si muovono in libertà. Tra tutte le fiabe e le novelle di cui ti sei presa cura, qual è quella che hai trovato più spietata?
La fiaba più letteralmente spietata in cui mi sono imbattuta è dei Grimm: Come certi bambini si misero a giocare al macellaio. Il libro più disubbidiente è invece di Mark Twain, illustrato per la Donzelli da Vladimir Radunsky: Consigli alle bambine (all’apparenza per insegnare loro a fare le brave, ma in realtà per invitarle alla disubbidienza).
Donne/draghesse e uomini/draghi avidi e affamati, esattamente come la bestia magica di cui sono fatti, di carne umana; streghe senza pudore; inganni e intrighi. Folte le fila dei protagonisti malvagi. Così come lunga è la schiera dei manipolatori di fiabe. Tuttavia anche autorità assolute, come per esempio Calvino, in alcune versioni delle Fiabe italiane (che attingono a mani basse dalla tradizione di fiabe che ora Donzelli sta meritoriamente pubblicando) propone finali diversi, a seconda delle edizioni. Questa sorta di pudore, se non proprio censura, da parte dell’editore e forse anche dell’autore, nel mettere davanti ai più piccoli finali troppo drammatici, che spazio trova dentro la casa editrice Donzelli?
Spietatamente nessuno, direi. Sarà che la mia prima vocazione è quella di traduttrice, ma l’approccio alle fiabe è uguale a quello che ho di fronte a qualunque altro testo: il rispetto (più o meno filologico a seconda del tipo di edizione e di pubblico a cui si pensa) e l’assenza di qualunque forma di prevaricazione, sia che si tratti di fiabe d’autore (Andersen o Capuana) che del frutto di un passaggio secolare di bocca in bocca, come nel caso dei repertori popolari raccolti da Pitrè, Di Francia o i Grimm prima maniera. Per raccogliere il filo delle vostre suggestioni, direi che da lettrice sono più affascinata dalle mammedraghe e i loro intrighi, ma da curatrice mi comporto come un fata buona, che realizza i desideri altrui – nella fattispecie dei narratori e delle narratrici. Perciò se un intreccio o un finale è brusco, crudo o politicamente scorretto resta tale. Come dicevano i Grimm per difendere la prima edizione delle loro fiabe: “Tutto ciò che proviene dalla natura non può che essere di giovamento… O ancora: pioggia e rugiada apportano giovamento a ogni luogo o cosa sulla terra, ma chi non ha il coraggio di mettere fuori le proprie piante, perché troppo delicate e perché teme che si danneggino, non potrà certo pretendere che smetta di piovere”.
Jack Zipes fa riferimento a protagonisti che sono capaci di “prendere la storia nelle proprie mani”; nell’introduzione a Re Pepe e il vento magico, raccolta di novelle e fiabe calabresi, citi questa frase di Zipes per accostarla alle donne protagoniste di molte di quelle fiabe e novelle. Sono donne pragmatiche, che mescolano la sfrontatezza alla magia, la determinazione all’assenza di scrupoli. Come mai così tante ‘donne forti’ compaiono nelle fiabe se poi nella vita reale il ruolo della donna era (è) di assoluta subalternità?
Le fiabe sono tradizionalmente il regno nel quale le donne si prendono la loro rivincita rispetto al predominio degli uomini nel mondo reale. La prima “sovversiva” in tal senso è Shahrazad – che a furia di raccontare disarma il sultano e interrompe la catena di morte tutta al femminile che pareva inarrestabile. Gli uomini hanno da sempre lasciato il passatempo di raccontare alle donne, ma il potere della parola e della narrazione può essere più incisivo di quello dell’agire puro e semplice. E quella Reginella a cui per esempio accennavate, a furia di parole riesce persino a far parlare il suo Re Pepe, dopo esserselo pure impastato, per l’appunto, con le sue stesse mani. Direi perciò che le fiabe sono state una bella palestra per le donne – a furia di raccontare, abbiamo anche cominciato a contare.
Ne Il pozzo delle meraviglie di Giuseppe Pitrè, c’è una particolare attenzione al lessico. Una cura ai dettagli che possano mantenere intatta l’origine e l’originalità di quelle 300 tra fiabe, novelle e racconti popolari siciliani. C’è una lingua che più s’adatta a narrare le fiabe? Quanto è importante salvaguardarne i toni e quali sono i criteri che ti hanno guidata nella scelta?
La traduzione delle fiabe del pozzo di Pitrè è stata per me una vera e propria scuola di semplificazione. Spesso la soluzione più giusta per trasportare un significato da una lingua all’altra induce a uno scatto di livello verso l’alto – più la parola è colta, più è sfaccettata e maggiore è la pluralità di senso che può contenere. Nelle fiabe popolari di origine orale è esattamente il contrario – tutto si esprime nella forma più basilare ed essenziale, che non vuol dire povera, ma anzi spesso estremamente immaginifica, soprattutto se dialettale – tuttavia sempre scarna, sintetica e anche ripetitiva. Trasferire questa semplice e disinvolta mistura di vocale e popolare sulla carta, per mezzo dell’inchiostro, è un cosa maledettamente complicata, che si può fare solo con grande umiltà e rispetto della materia viva a cui si presta il proprio orecchio e la propria lingua, prima ancora che la propria penna.
Da cosa è stata dettata la scelta di chiamare così spesso Fabian Negrin (leggete qui la nostra intervista) ad illustrare le vostre collane di fiabe? Qual è il quid che la casa editrice Donzelli gli riconosce nel suo modo di raccontare attraverso le immagini?
Il quid è il suo genio, che è fatto in parte a sua volta di una grande capacità di mettersi al servizio del testo e del racconto – come fa chi traduce. Di fronte ai nostri repertori fiabeschi, Negrin è camaleontico come un traduttore – adatta la sua immaginazione all’oggetto su cui si posa; sicché passa con disinvoltura dall’universo nordico e algido di Andersen e boschivo e cupo dei Grimm, a quello mediterraneo e lussureggiante di Pitrè o roccioso di Di Francia.
E il bello è che riesce comunque sempre a sorprenderti – la sua interpretazione, anche se rispettosa della materia, è sempre magnificamente spiazzante, inaspettata e originalmente negriniana.
Esiste un dialogo preliminare tra illustratore e curatore prima di scegliere cosa e come illustrare? Lasciando da parte il risultato estetico, che immaginiamo prema a entrambi, i temi che volete mettere in risalto con l’immagine sono coincidenti o sono argomento di discussione?
Direi che abbiamo un modo di lavorare assai dialogato, soprattutto a monte; ogni nostro nuovo progetto nella collana nasce da un intento editoriale di cui la parte iconografica è essenziale, perciò su questo c’è uno scambio di pensieri e impressioni prima di mettersi a lavoro. Successivamente, la scelta di cosa illustrare parte in genere da una selezione di nostre suggestioni, mentre sul come la delega è totale; abbiamo sempre pensato che l’interpretazione appartenga alla sua sfera di competenza e di autonomia e non siamo mai rimasti delusi, anzi, ogni volta è la scoperta di un’angolatura nuova che sprigiona una energia e una potenzialità di senso a cui non avevamo pensato.