Ho tanta fede in te. Mi sembra
che saprei aspettare la tua voce
in silenzio, per secoli
di oscurità.
(da Confidare, di Antonia Pozzi. Nel prato azzurro del cielo)
Nella fiaba la parola è magica, offre agli uomini una possibilità, dice Michele Rak, io aggiungo che spesso per arrivare a rendere reale questa possibilità è necessario che le cose restino piuttosto immobili, bocche serrate, a custodire un segreto.
L’immobilità che si fa azione dirompente nell’animo di ciascuno, che macera e poi fermenta per diventare movimento. L’immobilità che consegue a un segreto, al sapere e non poter condividere, al non riuscire a farlo, al non volerlo fare, che sempre diventa turbinio di attività, di ricerca di vie di fuga, di desiderio di comprensione, di rivalsa, di strumenti. Una stasi, quella del segreto, che si trasforma in viaggio e che del viaggio ripropone lo schema narrativo, proprio così come ricorre nella struttura più classica delle fiabe.
Nella fiaba c’è sempre una possibilità di cambiamento, dunque, specie se si parte o se si custodisce un segreto. Se un segreto c’è, è perché al suo nascere, al suo custodirlo, al suo svelarlo ruota attorno ogni cosa.
E quindi così come il viaggio anche il segreto nelle fiabe è “di formazione”, “alla scoperta di…”, “fuga da…”, “salvezza da…” così come è a fin di bene, mal riposto, tradito, una prova, una necessità, d’amore, per rancore.

I cigni selvatici, Hans Christian Andersen, Joanna Concejo, trad. Maria Giacobbe, Topipittori, 2011, Milano
Un segreto sopra ogni cosa, però, è condiviso. È condiviso da un gruppo molto ristretto di persone, spesso solo due, che lo custodiscono per ragioni diverse; è condiviso tra il soggetto e l’oggetto del segreto stesso consapevolmente o meno, nel caso si venga in possesso di un’informazione senza che la fonte dell’informazione ne sia al corrente; è condiviso tra un soggetto che impone il segreto con la promessa di una ricompensa e i destinatari passivi. Ed è questa sua caratteristica di elemento condiviso e precluso assieme che lo ammanta di fascino, lo distingue dal pettegolezzo, lo investe di significati e significanti dolorosi, intensi, profondi.
Ci sono delle condivisioni più semplici da gestire e metabolizzare, sono quelle con coloro con i quali dividiamo interessi, contesti, costumi, casa, genitori. Le condivisioni più semplici, perché talvolta è come se non dividessimo il segreto con nessun altro che con noi stessi, sono quelle tra fratelli.

I cigni selvatici, Hans Christian Andersen, Joanna Concejo, trad. Maria Giacobbe, Topipittori, 2011, Milano
C’era una volta Elisa, allontanata dai suoi 11 fratelli in tenera età da una matrigna dai poteri sovrannaturali tanto crudele da lanciare su di loro un sortilegio: di giorno cigni, di notte principi. La bambina, poi ragazza, cresce intelligente, bella, operosa. Non scorda mai i suoi fratelli e nel momento del ritorno a casa, da ragazza, è a riabbracciarli che pensa sopra ad ogni altra cosa. Ma le fiabe non si risolvono mai nel giro di qualche morbido accidente. Elisa si ritrova abbandonata, compagna del suo solo animo indomito, e di quei fratelli perduti agogna il ritorno e la compagnia. Nelle fiabe, c’è sempre qualcuno in ascolto, qualcuno disposto a ingannare o a dare aiuto. La voce disperata di Elisa viene accolta da una fata, la più severa tra le fate, che le offre una possibilità, lo dicevamo, le fiabe ne hanno sempre una. Tessere con ortiche 11 camicie e lanciarle sui cigni, così essi torneranno ad essere principi per sempre. Tessere e ferirsi, però in silenzio. Senza poterne fare parola ad anima viva.
I fratelli/cigni comprendono le ragioni d’amore del suo ostinato mutismo e la supportano, la sorreggono. Il segreto irrompe nella narrazione quando essa ha già percorso una strada molto lunga, tanto è già avvenuto quando Elisa comincia il proprio viaggio: acquisisce il segreto, lo custodisce tra sofferenze e umiliazioni e pur nella disperazione non vacilla, continua a tessere e a compiere il suo percorso ideale, fatto di ricerca degli strumenti, di piccoli aiutanti, di interventi magici, per poi liberarlo a missione compiuta, per poi giungere.
«Ma ricorda che, dal momento in cui inizierai questo lavoro e sino a che non sarà terminato, anche se dovesse durare anni, non dovrai mai parlare, perché la prima parola che ti uscisse di bocca sarebbe come una pugnalata mortale nel cuore dei tuoi fratelli. La loro vita dipende dalla tua lingua.» (da I cigni selvatici, di Hans Christian Andersen, nella traduzione di Maria Giacobbe e illustrata da Joanna Concejo per Topipittori)

I cigni selvatici, Hans Christian Andersen, Joanna Concejo, trad. Maria Giacobbe, Topipittori, 2011, Milano
La vita dei fratelli di Elisa dipende dalla sua lingua, dalla sua parola o meglio, dal suo non usarla, dal suo non dirne alcuna. Dal riuscire a custodire un segreto dipende il lieto fine di questa fiaba, dal tradirlo una delle più spietate tra le fiabe di Giovan Battista Basile, La vecchia scorticata, nella quale due sorelle vecchissime, e a quanto pare piuttosto repellenti, hanno diviso gli spazi ristretti di una casupola cadente e condiviso la propria esistenza giorno dopo giorno, fino a quando un quotidiano accidente, un fraintendimento diventa la loro possibilità di elevarsi, o di essere felici, che dir si voglia. Un re, facile a farsi raggirare dalla passione, crede all’inganno che le due sorelle tessono alle sue spalle: insieme escogitano un trucco ma solo una di loro potrà goderne i frutti semmai dovesse funzionare. L’altra rimarrà solitaria e triste, e in questo caso livorosa, custode del segreto. Un segreto piuttosto pesante che non è bilanciato da un rapporto fraterno sincero, quanto piuttosto incrinato da una convivenza forzata e che stenta a restare tale, fino a quando non si trasforma in quanto di più peggiore possa avvenire in sorte a un segreto: nel tradimento. La conclusione terribile e spietata sta nel titolo che ci racconta più di quanto dovrebbe del peso ingiusto di un segreto mal riposto.
Nello spazio narrativo di un romanzo, quello schema del viaggio che ho già applicato alla fiaba si struttura in maniera ancor più calzante. Un espediente, un guanto, che ben si adatta al Libro di tutte le cose, di Guus Kuijer, nel quale il segreto ci parla con tutte le sue parole, le sue parole che sono sussurri, che sono d’onore, che sono tradotte scioccamente in risate cristalline, che sono intime, drammatiche.
Thomas ha un segreto: suo padre picchia sua madre e la costringe a una vita di remissione. Suo padre picchia anche lui; anche questo è un segreto, nessuno lo conosce oltre lui e sua sorella, che però è sciocca, non è di nessuna utilità. Perché a Thomas quel segreto sta stretto, freme nel volerlo liberare e cerca un modo per farlo, seppur inconsapevolmente. Quando incontra il suo essere aiutante, una vecchia signora letterata e intraprendente, quando scopre il coraggio e matura un’idea più concreta dell’etica, Thomas comprende che le risate sciocche della sorella a tavola altro non sono se non una lingua, una lingua irriverente e provocatoria, che irride il padre e la sua religiosità bigotta; e comincia a comprenderla, diventa un linguaggio segreto di comunicazione: la sorella Margot ride scioccamente per mascherare una verità. È un’altra voce del silenzio del segreto. È un’altra voce che rafforza e eleva il legame tra i due, che li fa complici. Che esplode in maniera violenta e rumorosa, che dopo un lungo viaggio di messaggi, imprevisti, oggetti magici (i libri che liberano la voce), arriva, si completa in una rivelazione che mette un punto, che sconfigge, che trionfa.
Un uomo che picchia la propria moglie disonora se stesso. «Fammi vedere» Margot lesse la frase a bassa voce. «Chi te l’ha data? È troooppo vera!» «Non te lo dico» disse Thomas. «È un segreto». Margot teneva la testa inclinata e ascoltava in silenzio. (Il libro di tutte le cose, Guus Kuijer, trad. Dafna Sara Fiano, Salani, 2015, Milano)
Talvolta l’evoluzione del “mantenere un segreto” ha risvolti drammatici, molto intensi, talvolta esso è invece parentesi straordinaria nella realtà ordinaria delle cose in cui ogni cosa si tinge di meraviglia, magia e mistero. E ancora ritorna il viaggio, stavolta il mezzo è una barchetta, una barchetta costruita da un genitore premuroso per due bambini, fratello e sorella, Finn e Cara, che vivevano vicino al mare. Assieme e di buon grado badano alle pecore nei pascoli sul promontorio, assieme raccolgono e portano a casa la torba per il focolare. Nella piccola casa di pescatori Finn e Cara sono felici e contenti. Il papà, si diceva, un giorno regala loro una barchetta “Non allontanatevi mai dalla baia” – si raccomandò – “e state lontani dall’Isola della Nebbia!”. Dall’isola della nebbia nessuno ha mai fatto ritorno. Ma un giorno Finn e Cara non poterono mantenere fede alla raccomandazione paterna, e approdarono per via di correnti marine e, appunto, nebbia, su un’isola cupa e misteriosa. Salgono assieme, fratello e sorella, decine di scalini e in cima ad attenderli trovano un vecchio, un vecchio che li accoglie e con loro canta e che a loro racconta di come produca la nebbia, per avvolgere con essa il mare. Intanto i genitori a terra preoccupati fremono, incerti del destino dei figli. Al loro ritorno, leggero come il risveglio da un bel sogno raccontano a tutti il loro segreto, lo fanno a viva voce, sostengono di avere le prove di quanto raccontano, ma per troppa evidenza e per voce bambina nessuno crede loro. Mai segreto fu meglio custodito.
O forse no, forse il segreto di Judi e Peter lo è altrettanto. La mossa giusta è anche per loro il rivelare tutto, il raccontarlo nella sua straniante verità. La verità liberatoria del segreto rivelato che si mantiene tale per incredulità altrui. Non sospendono l’incredulità, gli adulti, non compete loro.
Judi e Peter compiono un altro viaggio, un viaggio verso la città d’oro, verso Jumanji.
Rimasti a casa da soli devono trovare il modo per trascorrere il pomeriggio. Nel parco trovano abbandonato un gioco da tavolo e decidono di portarlo a casa e giocarci assieme. Al gioco è allegato un biglietto che reca una raccomandazione, un avviso: una volta iniziato il gioco deve essere concluso. Si tratta, in fondo, di una sorta di gioco dell’oca la cui ultima casella è proprio Jumamji.
L’esplorazione sembra tacitamente concentrata nel sottile limes tra la realtà e l’immaginazione: i bambini fremono per l’avventura e si meravigliano dinanzi al susseguirsi di apparizioni che assumono rapidamente fattezze concrete alla semplice loro evocazione; contestualmente riportano la dimensione onirica all’ambito casalingo: la madre reagirà malissimo al disordine che scimmie e leoni hanno diffuso per casa; in merito a questo la loro preoccupazione non ha nulla di irreale. Prende piede in essi, quindi, la consapevolezza di dover prendere una strada: mantenere il segreto in merito a quanto vissuto durante il pomeriggio e quindi subire le conseguenze di azioni che verrebbero loro attribuite o svelarlo, così nella sua integra consistenza, rischiando di non essere creduti?
«Avete passato un pomeriggio entusiasmante?».
«Oh sì» disse Peter. «C’è stata un’inondazione, poi una carica, un vulcano, io ho avuto la malattia del sonno e…». Peter si interruppe quando gli adulti scoppiarono a ridere. (Jumanji, Chris Van Allsburg, tra. Francesca del Moro, Logos, 2013, Modena)
I due fratelli scelgono, forse perché agevolati dalla contingenza, dall’essere stati colti sul fatto, di rispondere con la verità, però dietro la schiena incrociano le braccia, proprio come quando si vuol scongiurare le conseguenze di una bugia, e ciascuno cerca lo sguardo dell’altro, giacché gli occhi comunicano in silenzio, con un lessico che è quello della complicità totale, fatta di quotidianità, di affinità, che non ha bisogno di essere espresso, tradotto in parole, alle quali affidano invece il contesto surreale: e allora raccontano di malattie del sonno, inondazioni, leoni e temporali, introducendo nel reale, con naturalezza, l’immaginario. Il tutto si risolve con una risata che è di supponente incredulità da parte degli adulti e di sorniona consapevolezza da parte di Judy e Peter che vedranno legittimati i loro fantastici accidenti da un finale aperto che chiude un ciclo per aprirne uno diverso: altri fratelli troveranno la strada per Jumanji, sapranno custodirne il segreto?