Lo scorso 18 giugno, con i ragazzi di Qualcuno con cui correre abbiamo incontrato e intervistato, al festival Mare di libri di Rimini, Marie-Aude Murail. È stata un’esperienza talmente intensa e coinvolgente che a distanza di settimane permane il desiderio di attardarci ancora un po’ nel mondo dell’autrice di Orléans, di farci ammaliare dalle sue storie, di immergerci in quelle atmosfere forti che l’umanità e lo humour dell’autrice ammantano di calviniana leggerezza.
Per individuare una chiave di lettura della sua opera che risulti coerente con il tema di questo numero di Libri Calzelunghe, occorre muovere dalla premessa che la famiglia è costantemente analizzata e vivisezionata nei romanzi di Marie-Aude Murail più che in quelli di altri autori per adolescenti. A una domanda in proposito di Flaminia, quindicenne redattrice del blog, l’autrice ha risposto così:
In famiglia si gioca tutta la partita: le cose più importanti che impari, i sentimenti… La famiglia deve essere ambivalente: ami tuo fratello ma ne sei geloso; moriresti per tua madre, ma quanto può essere “pallosa” ogni tanto. Se non impari questo in famiglia e non impari ad accettarlo, avrai difficoltà nel trovare il tuo posto in società. Proprio nella famiglia impari a esplorare tutta la gamma e la complessità di sentimenti ed è un lavoro lungo. Quando si è piccoli il papà e la mamma sono come delle divinità. Quando si diventa adolescenti sono gentili e cattivi, come se il mondo fosse diviso in due, ma sei tu quello spezzato a metà. Questo lo impari pian piano, prima in famiglia, poi con gli amici. Una delle cose che si imparano attraverso l’amicizia è il tradimento. Ci sono sempre due facce della medaglia. E se non vuoi essere un disadattato, un violento, teorico, devi accettarlo. È un lavoro che imparerai a fare in famiglia.
(La trascrizione completa dell’incontro è disponibile sul blog A casa di Anna di Anna Pisapia)
Anni prima, rispondendo a Carla Poesio su Liber, invece, Marie-Aude Murail si era espressa con queste parole:
Penso che soprattutto la letteratura giovanile sia una letteratura familiare, qualcosa che permette scambi di opinione in famiglia e tra generazioni diverse, un po’ come il film per ogni tipo di pubblico o il telefilm in prima serata. Inoltre, nei miei romanzi, cerco di togliere i recinti esistenti in questa nostra società in cui si mettono, ben separati, i bambini a scuola, i vecchi tra i rottami e gli adulti al lavoro. Io cerco di farli vivere e parlare tutti insieme. Sento una particolare tenerezza per tre età della vita altamente metafisiche che hanno bisogno di questa specie di compensazioni umoristiche: i bambini da 3 a 5 anni, che domandano ai genitori, specialmente la notte, “Perché viviamo se dobbiamo morire?”; gli adolescenti tra i 12 e i 30 anni, che si domandano a che serve vivere se nessuno si accorge che siamo al mondo; le persone di 80 anni e passa, a cui piacerebbe tanto sapere se la morte è un altro modo di essere vivi.
Ecco perché nei miei romanzi si trovano bambini come Venise, adolescenti come Bart, Siméon, Kléber, vecchi come il signor Villededieu. È la famiglia umana in cui credo.”
(Da Liber n° 82, aprile- giugno 2009)
Tra i diversi spunti che le due risposte offrono, mi pare che due considerazioni emergano nettamente. In primo luogo, il microcosmo familiare è fondamentale per comprendere l’ambivalenza del mondo: la famiglia non ha il compito di proteggere, ma di far comprendere e accettare la complessità dell’agire umano; secondariamente, questo ambiente che definiamo “familiare” può darsi confini molto diversi dalla famiglia tradizionale, in un senso o nell’altro. Spesso avviene, nei romanzi di Marie-Aude Murail, che il nucleo familiare vero e proprio sia ridotto numericamente, ma che contemporaneamente i giovani protagonisti della vicenda trovino comprensione, condivisione, accoglienza in un ambiente diverso, più ampio: penso alla scuola per Cécile in Cécile. Il futuro è per tutti, al salone di bellezza per Louis in Nodi al pettine, alla scuola di teatro per i tre adolescenti protagonisti di 3000 modi per dire “Ti amo”.
Se però vogliamo cercare, nei numerosi titoli della bibliografia di Marie-Aude Murail, due opere in cui diventa protagonista il rapporto tra fratelli, dobbiamo senz’altro analizzare da vicino Oh, boy e Mio fratello Simple, proponendo come chiave di lettura unificante il fatto che in entrambi i testi troviamo dei fratelli che occupano un vuoto di genitorialità.
Nel primo, i tre fratelli Morlevent (Siméon, Morgane e Venise, rispettivamente di 14, 8 e 5 anni) si ritrovano orfani dopo che il padre li ha abbandonati e la madre è morta cadendo dalle scale (in realtà si è suicidata, ma solo il primogenito lo sa). Fortemente determinati a non essere separati dalle istituzioni (“I Morlevent o la morte!”) e a non essere assegnati a un istituto, i tre fratelli fanno sì che il giudice tutelare, nella ricerca di una famiglia affidataria, individui due figli derivanti dal precedente matrimonio del padre, Barthelemy, 26 anni, e Josiane, 37.
La questione dell’affidamento comporta numerosi problemi: Barthelemy, detto Bart, omosessuale e all’inizio del romanzo piuttosto frivolo, non mostra particolare interesse, mentre Josiane, che non ha avuto figli dal matrimonio, vorrebbe adottare solo la piccola e graziosa Venise. Come in ogni romanzo di formazione che si rispetti, però, la situazione è destinata a evolversi, anche a seguito di una grave malattia, la leucemia, che colpisce il primogenito Siméon.
Il giovane Bart, un po’ indolente, senza impiego fisso, totalmente incapace di prendersi cura di se stesso e quindi meno che mai di occuparsi di bambini, sa ritagliarsi un ruolo preminente nella narrazione corale del romanzo, evolvendo verso la figura di un giovane pronto a dare amore a suo fratello e alle sue sorelle, a battersi per loro davanti al giudice. Arriverà persino a farsi passare per eterosessuale, presentando la vicina come sua compagna, per accrescere la possibilità di ottenerne l’affido. Quando viene a conoscenza della leucemia di Siméon, fa tutto ciò che è in suo potere per aiutarlo a ottenere il diploma: gli porta i libri all’ospedale, lo sostiene, lo incoraggia a non mollare. Dopo aver superato delle prove, sarà cresciuto, come ogni eroe dei romanzi della letteratura per ragazzi, e anche la sua vita personale ne risulterà trasformata.
Mio fratello Simple invece racconta la vicenda di Kléber Maluri, ragazzo di 17 anni che si appresta a frequentare l’ultimo anno di liceo a Parigi, ma deve prima di tutto trovare una sistemazione per sé e per suo fratello Barnabé, detto “Simple”, di 22 anni, affetto da grave ritardo mentale. Il motivo per cui Kléber ha preso in carico questo scomodo fratello risiede nel fatto che il loro padre, recentemente risposato, aspetta un bambino e vorrebbe internare Simple a Malicroix, istituto che ha però traumatizzato il ragazzo durante un primo ricovero.
Per Kléber prendersi cura del fratello è una questione d’onore, rispetto alla quale non nutre alcun ripensamento, nonostante la difficoltà che deriva dal fronteggiare le numerose situazioni in cui Simple, ragazzone con il cervello di un bimbo di tre anni, non tiene a freno la lingua. Dopo due tentativi infelici, i due vengono accolti in un appartamento di studenti, microcosmo condizionato da dinamiche complesse. Aria, l’unica ragazza del gruppo, è fidanzata con Emmanuel, suscitando la gelosia di Enzo, amico di Corentin, fratello della ragazza. L’arrivo nell’appartamento dei due fratelli Maluri è il detonatore che fa esplodere le loro esistenze, e il meno dotato di tutti, Simple, che comunque vive la sua personale formazione (basti pensare al progressivo distacco dal Signor Migliotiglio, il suo coniglio di peluche), è proprio quello che mostrerà agli altri, e soprattutto a Enzo, che più di tutti gli si affeziona, la strada maestra da seguire.
A mio avviso Mio fratello Simple è il paradigma della narrativa di Marie-Aude Murail. In questo romanzo breve, equilibrato, trovano spazio molti dei temi ricorrenti del suo immaginario: l’ambiente sociale borghese con un padre distante, l’incertezza degli amori adolescenti, la malattia, l’uso costante dell’umorismo e dell’inventiva linguistica per mettere distanza tra il lettore e la vicenda, il confronto generazionale (il vicino scontroso finirà per rivelare la sua umanità), il messaggio di speranza e di solidarietà.
E soprattutto, e questo è ciò che più ci interessa in questa sede, questa sorta di vicinanza liquida tra fratellanza e genitorialità, che rende la coppia Kléber – Simple del tutto raffrontabile a quella formata da Bart e Siméon, e che permette, senza dubbio, di appendere i loro ritratti nella pinacoteca delle più memorabili immagini di fratelli nella contemporanea letteratura per adolescenti.