Cartografie dell'Immaginario

Senza Mappa: errare senza paura di perdersi

Written by Valeria Bodo

A che serve una mappa?

A non perdersi, a trovare la strada. A percorrere il tratto più breve per arrivare dal punto A al punto B, possibilmente evitando il traffico. A conoscere preventivamente il territorio e avere punti di riferimento utili al percorso.

Carta, scala, bussola, gps, altimetro, riga e compasso, sestante, ottante, astrolabio.

Quanti strumenti esistono per non perdersi? Quanti punti di riferimento memorizza il nostro cervello quando ci spostiamo in un luogo mai visto prima?

Girovagare senza sapere dove andare è un’attività per chi ha tempo da perdere, ma può essere in alcuni casi anche pericoloso: si rischia di perdersi.

Ero sola. Di colpo tutto quel silenzio e quell’oscurità fredda mi terrorizzavano. Mi misi a correre, seguendo il fascio della torcia che ondeggiava davanti a me. Non vedevo l’ora di essere di nuovo con la mia classe.

(da L’isola tempo perso, Silvana Gandolfi, illustrazioni di Giulia Orecchia, Salani Gl’Istrici)

L'isola tempo perso, Silvana Gandolfi, illustrazioni di Giulia Orecchia, Salani Gl'Istrici

L’isola tempo perso, Silvana Gandolfi, illustrazioni di Giulia Orecchia, Salani Gl’Istrici

Giulia è in gita con la scuola in una miniera in disuso. L’ha raggiunta Arianna, sua amica speciale, tanto affine quanto diversa da lei. È bastato allontanarsi dal gruppo per pochi metri, deviare un paio di gallerie per riportare un piccolo pipistrello caduto dalla sua mamma. Di lì è facile rendersi conto di essersi perse, arrabbiarsi l’una con l’altra e scegliere di proseguire ognuna per una strada differente. La torcia smette di funzionare, la testa gira, l’improvvisa confusione, il buio. Giulia si sente svenire e scivola verso terra, abbandonata al senso di smarrimento e disorientamento. Ma improvvisamente la caduta verso il basso diventa uno slancio, una parabola lieve il cui atterraggio è morbido, in pendenza e pieno di luce: Giulia scivola lungo una discesa acclive, su quella che sembra la spiaggia di un’isola.

Scritto nel 1997, L’isola del tempo perso parte da una delle paure più radicate, dal senso di angoscia e impotenza che coglie chi si è perso. Il senso dell’orientamento viene immediatamente meno: senza un appiglio che ci indichi un punto di riferimento, la nostra mappa cognitiva viene ribaltata e ci si ritrova in uno stato di confusione totale. Se manca poi la luce, la sensazione provata assomiglia al muoversi in un labirinto bendati: i sensi diventano incapaci di aiutarci.

Ai bambini basta conoscere la posizione del genitore che li accompagna per sentirsi al sicuro. Tutto il loro sistema di riferimento si riduce alla sicurezza che l’adulto li protegga. In un adulto quella sicurezza è riposta nei confronti di riferimenti conosciuti nello spazio.

Che si sia bambini o adulti, quando ci si rende conto di essersi persi, la logica devia almeno un momento per lasciare posto al panico.

Hansel e Gretel, Lorenzo Mattotti, Orecchio Acerbo, 2009

Hansel e Gretel, Lorenzo Mattotti, Orecchio Acerbo, 2009

Nella letteratura per l’infanzia troviamo numerosissime situazioni in cui i protagonisti iniziano la loro avventura perdendosi. Sia Pollicino che Hansel e Gretel non trovano più la strada di casa: i punti di riferimento che avevano lasciato nel tentativo di ripercorrere a ritroso il tragitto fatto vengono spazzati via, e con loro la possibilità di tornare indietro. Si sono persi, non hanno più alcun appiglio, nulla che li riconduca ad un rassicurante luogo conosciuto.

Il Bosco è scuro, tutto uguale, non ha riferimenti, nessun cartello. Le creature terribili che popolano la foresta invece non hanno bisogno di mappe per muoversi all’interno di questo territorio dell’incertezza: l’orco annusa da lontano i “cristianucci”, la strega nella casetta di marzapane è quasi cieca e si muove con sicurezza nelle tenebre, la Baba Jaga arriva a cancellare le tracce dei suoi spostamenti con la scopa, aumentando il senso di disorientamento dei malcapitati. I loro sensi gestiscono perfettamente lo spazio senza possibilità di errore e il protagonista si sente privato di riferimenti spaziali di pari passo alla perdita della speranza.

Il “Re dell’Horror” Stephen King, che negli ultimi 40 anni ha raccontato storie di terrore facendo leva sulle paure ataviche dell’essere umano, ha indagato l’angoscia e l’impotenza del perdersi. La bambina che amava Tom Gordon racconta la storia di una ragazzina, Trisha, che si allontana ingenuamente durante una gita dalla famiglia in un bosco, per poi perdersi per giorni e notti. Unica consolazione è il suo Walkman, dal quale può ascoltare le gesta del suo eroe, il giocatore di baseball Tom Gordon. La mancanza di viveri e il terrore portano Trisha ad avere allucinazioni e a lottare oltre che per la sopravvivenza, anche per rimanere lucida.

Al bestseller è seguito un adattamento per bambini e ragazzi sotto forma di libro pop up, a dimostrazione che le emozioni che scatena lo smarrimento in un bosco sono trasversali ad ogni età e possono agganciare adulti e ragazzi con la stessa forza.

the girl who loved tom gordon, versione pop up ridotta per ragazzi dal romanzo di Stephen King

The Girl Who Loved Tom Gordon, versione pop up ridotta per ragazzi dal romanzo di Stephen King

Eppure i bambini smarriti nel punto più fitto e intricato del bosco cominciano proprio lì la loro avventura. È precisamente quello il punto di non ritorno: quando ci si perde, si può decidere di fermarsi e piangere, aspettando il sopraggiungere della notte e del freddo, oppure si può procedere. Ci si può guardare attorno, aguzzare i sensi, esplorare l’inesplorato. E scoprire, magari, che non tutto è perduto.

E se perdersi non fosse poi così grave?

Se anzi si considerasse il perdersi e il vivere senza mappe un modo di essere, una forma di scoperta, un’arte?

Kathrin Passing e Aleks Scholz, autori del saggio Perdersi m’è dolce… Piccolo manuale per perdere l’orientamento e imparare a vagabondare senza meta, hanno stilato un “eptalogo” sul perché sia necessario apprendere l’arte del sapersi perdere.

Perdersi fa risparmiare tempo”, “soldi” e “fa vacanza”, ci suggeriscono, tra il serio e il faceto gli autori: vivere senza mappa creerebbe un’atmosfera di continua scoperta e avventura gratuita e ci permetterebbe di allentare la morsa del tempo e dell’organizzazione a tutti i costi. “Chi si perde scopre il mondo” e “vive più a lungo”, in un continuo esercizio di improvvisazione:

Nelle scuole di arti marziali la prima cosa che si impara è come cadere (…). Per gli stessi motivi è consigliabile esercitarsi ogni tanto con la perdita di orientamento. Chi la domina non si innervosisce immediatamente solo perché si è smarrito sull’Himalaya o mentre andava alla posta.

“Chi si perde scopre il mondo”

Charles Baudelaire per la prima volta definì con il termine flâneur un esploratore, un osservatore della città e del paesaggio, un artista che vaga per il piacere del suo errare senza fretta, senza un programma e ovviamente senza mappa. Nella Parigi dell’epoca, il flâneur aveva il solo obiettivo di “…voir le monde, être au centre du monde et rester caché au monde”.

Francesco Carreri, membro di Stalker, l’Osservatorio Nomade, fondato a Roma come organismo interdisciplinare il cui obiettivo è condurre ricerche sulla città e sugli spazi della città, ha pubblicato nel 2006 Walkscapes, Camminare come pratica estetica, un percorso storico artistico sul cammino come intervento di conoscenza dello spazio e strumento estetico. L’azione del camminare, legata a una necessità di spostamento per la sopravvivenza umana per secoli, prende un’altra connotazione: passeggiare, errare, spostarsi, perdersi vengono elevati a esperienza estetica, a forma d’arte che raggiungerà le sue massime espressioni nelle escursioni dadaiste e nelle deambulazioni surrealiste fino ai “viaggi opera” di Richard Long, esponente della Land Art.

Giovannino Perdigiorno visto da Francesco Tullio Altan, copertina

Giovannino Perdigiorno visto da Francesco Tullio Altan

Tra il 1972 e il ’73 Gianni Rodari diede vita ad uno dei suoi personaggi più affascinanti e longevi, un flâneur perfetto: Giovannino Perdigiorno. “Col suo sacco”, “viaggiando da qui a lì”, Giovannino vaga tra un paese e un altro con spirito di un vero viaggiatore, si muove curioso, rispettoso dei luoghi e delle abitudini dei paesi, senza limiti di tempo e senza paura di perdersi.

Giovannino Perdigiorno
ha perso il tram di mezzogiorno,
ha perso la voce, l’appetito,
ha perso la voglia di alzare un dito
(…)
ha perso la foglia, ha perso la via:
tutto è perduto fuorché l’allegria.

 Illustrazione di Altan

I viaggi di Giovannino Perdigiorno, Gianni Rodari, illustrazioni Francesco Altan, Einaudi Ragazzi, 2010

Giovannino incarna la possibilità di vedere il mondo senza schemi preimpostati e senza pregiudizi: vaga da un paese e l’altro con occhi aperti e spirito accogliente. Non ha mappe con sé, ma solo la voglia di scoprire e una certa propensione per la serendipità, un neologismo che ben spiega la “capacità o fortuna di fare per caso inattese e felici scoperte” (dal vocabolario on line Treccani). I viaggi di Giovannino sono avventure erranti, moti apparentemente casuali grazie ai quali egli scopre luoghi non conosciuti, spazi bianchi sulle mappe geografiche.

Sprovveduti senza mappa

A volte per mettere in moto l’atavico istinto nomade di errare basta una finestra sul mondo che ci distolga dalle nostre routine. Ad esempio può venir voglia di andare alla volta di Panama, luogo lontano e indefinito, solo perché sotto i nostri occhi, dal fiume, è arrivata una cassetta vuota che profuma di banane.

Piccolo Orso e Piccola Tigre, protagonisti di Oh, come è bella Panama, albo del 1978 del tedesco Janosch, sono così attratti dalla prospettiva di abitare in un posto da sogno che lasciano immediatamente tutte le proprie sicurezze e partono, pur non conoscendo distanze né direzioni; le indicazioni degli animali che incontrano sono tutte errate, casuali e prive di fondamento.

Come ovviare alla necessità di punti di riferimento?

«Quando non si conosce la strada» disse il piccolo Orso, «per prima cosa ci vuole un segnale stradale». Perciò con la cassetta costruì un piccolo segnale stradale.

Oh, com'è bella Panama, Janosch, Kalandraka, 2013

Oh, com’è bella Panama, Janosch, Kalandraka, 2013

Il segnale indica ovviamente una direzione casuale e loro stessi saranno vittime dell’errore. Vagare senza mappa non vuol dire certo non avere una meta o un obiettivo, né tantomeno rimanere a mani vuote. I due, dopo un giro rotondo attorno al bosco, sono convinti di aver trovato Panama.

«Oh, Tigre» diceva ogni giorno il piccolo Orso, «che bello avere trovato Panama, non è vero?»

«Sì» rispondeva la piccola Tigre, «il paese dei nostri sogni. Così mai e poi mai dovremo andarcene via.»

Il viaggio non è stato inutile. Una voce fuori campo strizza l’occhio al lettore: “Pensi che si sarebbero potuti risparmiare il lungo viaggio? Ma no! Perché non avrebbero incontrato la volpe e nemmeno la cornacchia. E non avrebbero mai conosciuto la lepre e il riccio. E soprattutto non avrebbero mai scoperto quanto sia comodo un divano morbido morbido” con il quale hanno arredato la loro vecchia casa.

Il viaggio li ha arricchiti, gli sbagli nel percorso hanno creato occasioni di incontro e hanno permesso ai due protagonisti di uscire dalla loro zona di comfort. Perdersi per Orso e Tigre ha il senso di ritrovarsi più ricchi. Se davvero Orso e Tigre avessero avuto una mappa per arrivare a Panama, quasi sicuramente avrebbero rinunciato all’impresa e sarebbero rimasti ancora una volta tra le quattro mura. Essere sprovveduti può aiutare a conoscere il mondo.

Oh, com'è bella Panama, Janosch, Kalandraka, 2013

Oh, com’è bella Panama, Janosch, Kalandraka, 2013

“Cartine e bussole sono strumenti per principianti”

I navigatori polinesiani migliaia di anni prima dell’avvento di strumenti di navigazione riuscivano a trovare la rotta con l’aiuto di stelle, sole o luna, venti, o se il cielo era coperto interpretando le posizioni di balene e meduse. I navigatori in canoa delle isole Marshall avevano creato mappe personali fate di bacchette di legno e conchiglie, ma con fattura e scala talmente personali che ogni navigatore riusciva ad interpretare solo la propria.

E per chi non sa distinguere il ponente dal levante?

Avere una mappa comunque non rappresenta garanzia del non perdersi. Se la mappa fosse vecchia? Se i sentieri fossero stati deviati, la strada chiusa, il fiume prosciugato? E se quell’edificio demolito? All’epoca dei primi navigatori satellitari la mappa preimpostata non corrispondeva spesso a quella attuale perché non veniva aggiornata in tempo reale. Non si può avere fiducia cieca nella vocina monocorde del navigatore per decidere che strade prendere.

Camminare, girovagare, esplorare le strade che abbiamo davanti può essere un utile approccio alla scoperta e alla consapevolezza della propria maturità. Muovere i propri passi autonomi e sondare le strade, in senso fisico e metaforico è uno dei primi passi verso la propria crescita. Ed è così che inizia l’avventura nell’ultimo albo del Dr. Seuss, una sorta di lettera aperta ai suoi lettori, un incoraggiamento e uno slancio verso la vita e all’appropriarsi della propria autonomia di scelta e arbitrarietà.

Un’immagine vertiginosa è quella che apre e chiude l’edizione italiana: il protagonista ha lasciato la città, perché nessuna strada lo persuade. Una doppia pagina allarga la prospettiva del lettore, una valle infinita delimitata da miriadi di strade possibili. “Camminare all’aria aperta” è sorprendente, il ventaglio di possibilità che si parano avanti a noi è sterminato.

Oh, quante cose vedrai!, Dr. Seuss, traduzione Anna Sarfatti, Mondadori, 2016

Oh, quante cose vedrai!, Dr. Seuss, traduzione Anna Sarfatti, Mondadori, 2016

Oh, quante cose vedrai!” ci rammenta l’autore. Anche luoghi non facili per chi li attraversa la prima volta senza mappa:

Giungerai in un luogo con le vie non segnate. Buie molte finestre, poche illuminate. Lì rischi fratture al gomito e al mento. Hai il coraggio di starne fuori? Hai il coraggio di andare dentro? Quanto hai da perdere? Quanto da guadagnare?

Il nostro protagonista procede nell’intricato bosco che si apre davanti a lui, alberi tutti uguali, strade intricate: “Correrai a rompicollo con la mente confusa macinando chilometri per sentieri tortuosi, vedrai spazi selvaggi e misteriosi”.

Tanti sono i luoghi attraversati durante questo viaggio verso la propria vetta, un percorso non facile, ma l’autore ci rassicura: “ce la farai certamente! (Garantito al 98 e ¾ per cento). RAGAZZO, SPOSTERAI LE MONTAGNE!”.

Perdersi e trovare il proprio percorso diventa l’allenamento propedeutico alla propria realizzazione.

Perdersi per ritrovarsi

«Ogni essere umano» continuò, «dovrebbe, almeno una volta nella vita, provare a smarrirsi per venire a trascorrere un periodo nell’Isola del Tempo Perso, perché qui si può star vicini al cuore di noi stessi più che altrove»

(da L’isola tempo perso, Silvana Gandolfi, illustrazioni di Giulia Orecchia, Salani Gl’Istrici)

Giulia e Arianna si erano dunque perse e sono state catapultate in una dimensione sconosciuta, un’isola perfetta dove arrivano tutti coloro che nel mondo si sono smarriti. L’isola raccoglie oggetti, bambini e adulti, animali che vengono sparati da un vulcano sulla sabbia nera e morbida. Ma vengono anche eruttati i sogni persi sulla terra, le speranze che sono smarrite, il coraggio che non si trova più, i fili del discorso.

L’isola è un luogo dove ritrovarsi: un paradiso nel quale il tempo va lentissimo e i tramonti durano giorni, non bisogna pensare ad altro che al proprio benessere. Giulia impara tanto bene la filosofia del luogo che vagabondeggiando, riesce perfino a trovare dei mirtilli che nessuno prima era riuscito a scovare.

Silvana Gandolfi è una professionista del viaggio vagabondo, dell’errare per il piacere di osservare. Dalla sua breve biografia apprendiamo che “si è fatta largo a colpi di machete nella giungla africana per contemplare immobile per due settimane un ippopotamo a mollo in uno stagno. Ha attraversato sette mari e due oceani per stendersi per alcuni mesi su un’amaca in un’isola sperduta”.

Perdere la strada, non affrettarsi, guardarsi intorno con consapevolezza, essere pronti ad ogni imprevisto: viaggiare senza mappa può essere una sfida azzardata per chi è abituato a programmare ogni passo. Ma il rischio di essere fagocitati e di non godersi il panorama è alto. E quello di irrigidirsi e non saper accogliere l’imprevisto è ancora maggiore.

E con i ragazzi? Siamo pronti a riconoscere che il nostro bisogno di non perderci e di avere ogni cosa sotto controllo non li stia contagiando? Lasceremo loro un po’ di spazio per girovagare in giardino, in casa o almeno col pensiero, di imparare che anche sbagliare strada può talvolta mostrarci paesaggi straordinari? Permetteremo ai bambini di imparare a diventare dei Giovannino consapevoli della bellezza di ciò che c’è intorno?

Bibliografia
I viaggi di Giovannino Perdigiorno, Gianni Rodari, illustrazioni Francesco Altan, Einaudi Ragazzi, 2010
L’isola del tempo perso, Silvana Gandolfi, illustrazioni Giulia Orecchia, Salani Gl’Istrici, 2008
La bambina che amava Tom Gordon, Stephen King, Sperling & Kupfer, 2008
Oh, com’è bella Panama, Janosch, Kalandraka, 2013
Oh, quante cose vedrai!, Dr. Seuss, traduzione Anna Sarfatti, Mondadori,  2016
Perdersi m’è dolce… Piccolo manuale per perdere l’orientamento e imparare a vagabondare senza meta, Kathrin Passing e Aleks Scholz, Serie Bianca Feltrinelli, 2011
Walkscapes. Camminare come pratica estetica, Francesco Careri, Piccola Biblioteca Einaudi, 2006
Intervista a Silvana Gandolfi da letteratura.rai.it

sull'autore

Valeria Bodo

Valeria Bodò è una giocattolibraia. Promuove la letteratura per l'infanzia in gruppi di approfondimento e lettura tra adulti. È un'educatrice naturalista e ha tenuto laboratori per bambini e ragazzi, specializzandosi in un tipo di didattica inclusiva in centri di accoglienza e in carcere. Ha lavorato in una biblioteca accessibile a persone sorde, curando in particolare il reparto ragazzi.

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