“Ah”, pensò Bastiano, “come vorrei aiutarla, aiutare lei e anche Atreiu. Cercherei di inventare un nome bellissimo. Se soltanto sapessi come arrivare fino ad Atreiu! Ci andrei subito. Chissà che occhi farebbe se mi vedesse comparire all’improvviso. Ma purtroppo è impossibile.O forse no?” E poi a voce bassa mormorò: “Se c’è un mezzo qualsiasi per arrivare fino a voi, ditemelo, per favore. Io vengo, sicuro che vengo, Atreiu. Vedrai, ti puoi fidare.” (La Storia infinita, Michael Ende)
Che la mappa sia uno strumento è indubbio. Che sia un filo, un filo conduttore, l’ho appurato cercando di trovarne uno che legasse e collegasse alcune fiabe della tradizione classica, italiane così come straniere, l’una all’altra in un discorso per tappe su ciò che porta ai luoghi fiabeschi e dove essi conducano.
Ciò che io vorrei sapere, è questo: supponendo che io abbia qui nella mia tasca il filo capace di condurmi dove Flint ha seppellito il suo tesoro, credete che quel tesoro possa essere importante? (L’isola del tesoro, Robert Louis Stevenson)

L’isola del Tesoro nacque dalla mappa disegnata dallo stesso Stevenson. Ecco quella originale che presentò all’editore ancor prima del romanzo.
Ne L’isola del tesoro a un certo momento ben definito della narrazione, quello che legittima la partenza, la messa in mare, c’è il ritrovamento di un filo; un filo capace di condurre Jim in un luogo, un luogo ben circoscritto da indicazioni e coordinate, un luogo, che è un’isola, un luogo quindi a sé stante, un mondo altro e dai confini ben circoscritti, che nasconde al suo interno, nelle sue viscere, al riparo dagli occhi, dalla luce, un tesoro.
Su quel filo, che è una mappa, vi erano, tra le altre cose e
specialmente visibili, tre croci in inchiostro rosso: due nella parte nord dell’isola, una al sud- ovest; inoltre, accanto a quest’ultima, nel medesimo inchiostro rosso, in una minuta e linda scrittura ben diversa dai tremolanti caratteri del capitano, queste parole: “Qui il grosso del tesoro”. Sul rovescio del foglio, la stessa mano aveva tracciato i seguenti ulteriori ragguagli: “Grande albero, contrafforte del Cannocchiale, punto in direzione Nord-Nord-Est, quarta a Nord. Isola dello Scheletro Est-Sud-Est, quarta ad Est. Dieci piedi. La barra d’argento è nel nascondiglio nord; trovasi nella linea del poggio est, dieci braccia a sud della prospiciente rupe nera… (L’isola del tesoro, Robert Louis Stevenson)
È lo stesso filo, la stessa mappa, che ho deciso di seguire per raccontarvi dei luoghi senza un posto e senza coordinate delle fiabe. È lo stesso filo, che è una mappa.
Dunque, dove vanno i personaggi fiabeschi? Perché si incamminano? Che strumenti hanno a loro disposizione per orientarsi?
Dove vadano è presto detto: vanno non si sa dove; il perché si incamminino può dipendere da necessità di sopravvivenza (e in esse si possono annoverare le fughe, le ricerche di oggetti salvifici), per desiderio di migliorare la propria condizione di partenza, laddove “partenza” è una parola che pesa. Quasi mai per esplorare, per andare alla scoperta. Questo è un elemento che si intromette successivamente al partire, di soppiatto e sempre per caso; in merito agli strumenti ce ne sono due, gli unici due che io abbia individuato: il sentito dire e il tempo. Sembra che nelle condizioni fiabesche si fatichi a usare la carta e l’inchiostro. Eppure, nelle fiabe ci sono tante istruzioni, fornite e richieste, tante indicazioni, date e seguite con puntualità. Lo racconta bene Neil Gaiman nei versi di Il Cimitero Senza Lapidi e Altre Storie Nere.
“Una volta attraversato il giardino,
ti troverai nella foresta.
Gli alberi sono vecchi.
Degli occhi osservano dal sottobosco.
Sotto una quercia contorta
siede una signora anziana.
Potrebbe chiedere qualcosa;
dagliela.
Ti indicherà la strada per il castello.
Al suo interno ci sono tre principesse.
Non fidarti della più giovane. Tira dritto.
Nella radura oltre il castello,
i dodici mesi siedono accanto al fuoco,
si scaldano i piedi, si narrano storie.”
Sembra che nelle condizioni fiabesche costi struttura e tensione apporre delle croci, evidenziare in rosso i posti su cui soffermarsi, quelli che possono nascondere qualcosa, le svolte cruciali, appunto, le direzioni.
Ci sono invece dei luoghi ben individuabili ma assolutamente privi di qualsiasi connotazione che faccia pensare a loro come a un punto d’arrivo, di svolta o d’accesso, che ricorrono piuttosto spesso. Sono luoghi semplici, direi anonimi, cui i personaggi fiabeschi arrivano per puro caso e senza intenti di alcun genere. Sono cavolfiori, sono fontane, sono pozzi, sono radici, sono alberi.
Come arrivano i protagonisti delle fiabe a questi posti è un filo che vado a svolgere e lo farò anche per mezzo di rappresentazioni figurative; narrerò per mezzo di mappe la narrazione e le sue tappe, quelle ricorrenti o quelle atipiche, che portano a luoghi d’accesso per luoghi altri, magici, lontani.
Magico è il luogo il cui accesso sta in una peschiera, che a sua volta è all’interno di un giardino, quindi di un luogo ad accesso limitato e circoscritto da mura, siepi, cancellate, in cui trova casa un granchio. Luogo d’arrivo di lunghe peripezie che l’hanno visto protagonista e di cui nulla però conosciamo; luogo in cui era destinato a giungere sebbene nessuno dei vettori che contribuiscono all’adempiersi del suo destino, del suo viaggio, ne sia consapevole.
La fiaba è quella del Principe Granchio rinarrata da Italo Calvino tra le sue Fiabe italiane. In essa un pescatore trova nella sua rete un granchio e, reputando che possa essere ben venduto, lo propone a un re che, per far contenta la propria figliola, appassionata di pesci e animali marini, lo acquista, facendolo porre nella fontana dei pesci. La fanciulla mira e rimira le sue creature e nel farlo si accorge che tutti i giorni il granchio scompare dalla fontana da mezzogiorno alle tre. Poi un giorno un vagabondo bussa alla porta del re per chiedere la carità, dal balcone gli lanciano una borsa che cade in un fosso.
Il fosso comunicava con la peschiera del Re attraverso un canale sotterraneo che continuava fino a chissà dove. Seguitando a nuotare sott’acqua, il vagabondo si trovò in una bella vasca, in mezzo a una gran sala sotterranea tappezzata di tendaggi, e con una tavola imbandita.
Ebbene, in questa sala si reca il granchio ogni giorno da mezzogiorno alle tre; qui pranza con una fata che lo tiene prigioniero e celato nel carapace di un granchio… la fiaba continua e si conclude con il trionfo di due innamorati e la rottura dell’incantesimo di prigionia ma in questo contesto, per quanto felici per i due ragazzi innamorati, la parte in argomento della fiaba si conclude con l’arrivo del vagabondo alla sala magica.
La struttura ricorrente è quella del personaggio umile cui capita un accidente fortuito e che senza averne alcuna coscienza è una pedina di un destino già ben orchestrato, è uno strumento atto al trasporto da un luogo reale (in questo caso il mare) a un luogo altrettanto reale (come può esserlo una peschiera) di un oggetto, un oggetto che si rivela magico e capace di rendere magico anche il luogo in cui alberga. Nella narrazione per tappe su un’ideale mappa verso il luogo magico, la riva del mare avrebbe la prima croce a inchiostro rosso. La successiva sarebbe alla corte del Re, la seguente alla peschiera e la quarta, dissimile dalle altre per forma e sostanza ma utilissima per orientarsi, è il periodo di tempo compreso tra mezzogiorno e le tre. Quest’ultima è l’unica tappa di cui i personaggi protagonisti sono pienamente consapevoli. Interviene un altro aiutante inconsapevole che per puro caso trova l’accesso per mezzo di un umilissimo fosso a un’altra dimensione, un altro piano, un altro mondo. Un altro mondo che è chissà dove, alla fine di un cunicolo in fondo a una fontana. Narrativamente la mappa che conduce granchio, vagabondo, principessa e lettore nel luogo magico (la fata vi arriva seguendo un’altra mappa a noi sconosciuta o forse conosce a memoria la strada) è questa:
I personaggi fiabeschi camminano e camminano, senza una meta. Vanno, nonostante tutto con una certa sicumera, attraversano boschi, seguendo sentieri, attraversando città. Non usano mappe, ciononostante arrivano seguendo le tracce ben definite del caso o chiedendo a destra e a manca senza appurare che coloro cui si chiede effettivamente conoscano le indicazioni giuste o il luogo cui arrivare. Niente tracciati scritti; molti: ho sentito che; si dice che. “Che c’è, lo so di sicuro; ma dov’è, non saprei proprio dirlo” (Il giocatore di biliardo). Pollicino aveva pur provato a costruirsi una mappa, scrivendo sull’erba con le briciole di pane, ma il caso ha voluto che le briciole fossero appetitose per gli uccelli…
Ne La fiaba dei gatti una donna, che aveva una figlia e una figliastra, manda la figliastra a raccogliere cicorie. La ragazza va e va fino a giungere in un posto in cui non trova cicorie ma un cavolfiore. Lo sradica e nel farlo sotto al cavolfiore si apre “come un pozzo”. In questo luogo simile a un pozzo c’è una scaletta, la ragazza ne discende gli scalini e arriva in una casa piena di gatti intenti nelle più disparate faccende domestiche, lei li aiuta fino all’arrivo di mamma gatta che la ricompensa ricoprendola di regali preziosi. Prima di congedarla, però, mamma gatta le fornisce anche un’indicazione precisa: quella da seguire per trovare un tesoro. “Ora che esci, nel muro ci sono certi pertugi; tu ficcaci le dita, e poi alza la testa in aria”
Alle indicazioni spaziali seguono anche delle precise informazioni sui riti da compiere: il luogo del tesoro si rivela sì il luogo reale, il muro, quanto anche il cielo, dal quale piove una stella d’oro. Un cavolfiore si rivela luogo d’accesso per un mondo fatato, popolato da esseri magici; una dimensione in cui si vive e opera, un altro luogo separato da quello reale ma con esso collegato.
Molto complessa, seppur breve, in questa ottica, è Cola Pesce. Nelle fiabe spesso i luoghi sono simbolici e si susseguono in maniera “non naturale” anche se, come in questo caso, alcune di esse si riferiscono (quasi a volersi fare leggenda) di luoghi concreti. In questa fiaba, dalla ricchissima tradizione, si racconta di un ragazzo che a furia di trascorrere il tempo in mare a nuotare divenne una sorta di pesce. Una maledizione, una condanna, per alcuni, per Cola Pesce no; lui nuota e nuota. E la sua fama viaggia bocca dopo bocca.
Fino ad arrivare alle orecchie del Re di Messina che un giorno gli dice:
Cola Pesce, tu che sei così bravo nuotatore, dovresti fare un giro tutt’intorno alla Sicilia, e sapermi dire dov’è il mare più fondo e che cosa ci si vede!
Da qui in avanti Cola Pesce documenta coi propri occhi (e i propri polmoni), in perfetto stile da esploratore di nuove terre (di fondali per la precisione), prima i fondali attorno alla Sicilia, poi indaga e documenta su cosa poggi Messina (per i curiosi, essa ristà su uno scoglio e questo scoglio poggia su tre colonne, una sana, una scheggiata e una rotta) e infine il fondo dei vulcani, nei dintorni di Napoli. Considerata la difficoltà del povero Cola Pesce nel redigere una vera e propria mappa, il Re non fu mai soddisfatto dei suoi report e quindi lo costringe a spingersi sempre oltre, fino a quando di Cola Pesce si perdono le tracce.
Mi discosto dalla tradizione popolare italiana per approdare a quella inglese. Scelgo una fiaba più che nota, Jack e la pianta di fagioli.
Yggdrasil nella mitologia norrena è l’albero cosmico: le sue radici affondano negli inferi, il tronco si erge nella terra degli uomini, mentre i rami si protendono nel cielo, anzi, sopra la volta celeste. Snorri Sturluson (autore dell’Edda in prosa) racconta che una dei rami dell’Yggdrasil arriva fino al regno dei giganti. L’albero cosmico si fa strada, diventa un percorso in cui è possibile prendere diverse direzioni. Esse, per sentito dire, per quanto si racconta, portano in luoghi assolutamente diversi tra loro: terreni, mitici, divini, magici.
Jack si ritrova tra le mani dei semi, dei fagioli, non sa che cosa siano capaci di generare, non immagina che cosa avrà luogo dai loro germogli; essi sono assolutamente non divini quanto piuttosto umili; peraltro la pianta del fagiolo è fragile, se non fosse sorretta da bastoni di canna si svilupperebbe lungo il terreno, marcendo, non dando frutti. Dai fagioli di Jack, invece, si innalza non solo un albero resistentissimo ma anche, novello Yggdrasil, strada capace di condurre nel regno dei Giganti e, a ritroso, ancora verso la terra degli uomini.
Una strada inconsapevolmente percorsa, quindi, conduce a un luogo magico in cui cambiare il proprio status, raccogliere notizie, da cui tornare ricco o non far più ritorno. A questa strada conduce una narrazione che ritorna nella sua struttura, conduce per tappe, scandisce i tempi del cammino fissando aree temporali ben precise.
Mi sono sentita un po’ Valdemaro, che una mappa l’aveva per trovare il tesoro ma gli è stata sottratta, e, quando la ritrova è sbiadita, impossibile da consultare. Come me, per raggiungere la sua meta deve trovare un altro filo, seguire altre tracce: fornite dal caso, dalle voci e dal tempo.
A chiusura della raccolta di fiabe dei Grimm c’è sempre una fiaba. La chiave d’oro. Ve la racconto e con essa intendo che la fiaba è nel suo essere tale: si rinnova, cambia, segue le tracce del tempo e talvolta le smarrisce, cambia direzione, torna al punto di partenza. Come sulle orme di un tesoro, come seguendo il sentito dire: si racconta che ciò che cerchi sia… ma si racconta anche che sia altrove.
La direzione da scegliere non può che affidarsi al caso e il caso non risponde mai a regole precise, esso accade. Va, va e va. Trova luoghi meravigliosi anche tra le radici di un cavolfiore.
D’inverno un ragazzo trova una chiave tra la neve. Una chiave d’oro. La trova perché la neve era alta e nonostante ciò lui era dovuto andare a far legna e aveva freddo. Voleva fare un fuocherello, spiana la neve e la trovò, la chiave d’oro. Pensò che se c’era la chiave doveva pur esserci qualcosa da aprire. E infatti scavò ancora e trovò uno scrigno. Cercò e cercò ma non capiva dove fosse la serratura, poi infine la vide. Era piccolissima. Vi infilò la chiave, ed era proprio quella giusta. Allora girò una volta, e aprì. Ma cosa ci fosse dentro nessuno ce lo racconta. Un giorno, forse, lo sapremo
Io credo di avervi intravisto una scala e discendendo quei gradini tempo un’ora credo si arrivi in un posto meraviglioso. Credo.