“Fu durante una passeggiata sui docks che acquistai l’oggetto che doveva trasformare per sempre la mia vita: un dente enorme ricoperto di strane incisioni. L’uomo che me lo vendette, un vecchio marinaio incartapecorito e incanutito da anni trascorsi in mare, sosteneva di averlo avuto da un fiocinatore malese incontrato nel corso di una lontana campagna di caccia alla balena. Ne chiedeva un prezzo elevato, adducendo come pretesto che non si trattava di un comune dente di capodoglio, ma di un ‘dente di gigante’, sorta di talismano da cui si separava con rincrescimento, spinto dalla necessità di una vita che l’età aveva finito col rendere miserabile. Pensai naturalmente a una truffa, ma la storia era bella e acquistai il pezzo per due ghinee.”
Comincia così il racconto illustrato di François Place Gli ultimi giganti, ma comincia così anche la storia di Archibald Liutpold Ruthmore, il 29 settembre del 1849.
Portato a casa il grande dente, spinto dalla sua insaziabile curiosità, egli comincia a osservarlo attraverso una lente di ingrandimento e scopre sottilissime incisioni che ne attraversano la superficie. Dopo lunghi mesi di studi e osservazioni, stabilisce che quei segni non sono altro che la mappa precisa e dettagliatissima del Paese dei Giganti.
Parte. Il suo viaggio è lungo e difficoltoso. A tal punto che lui stesso, ridotto allo stremo delle forze, rimasto solo dopo la perdita di tutto il suo equipaggio, è sul punto di cedere. A un passo dal traguardo, ormai sul punto di soccombere, il suo debole corpo viene raccolto e curato da quattro enormi creature che con una delicatezza insospettabile per la loro mole lo sottraggono alla morte.
In tutto sono nove, cinque Giganti e quattro Gigantesse, ciò che resta di un mitico popolo.
Altissimi, con i capelli raccolti, vestiti con mantelli fatti di vegetazione, hanno l’intera superficie del corpo tatuata da minuscoli ghirigori. A guardarla con attenzione essa presenta una caratteristica del tutto unica. Le sottili linee intricate che la attraversano altro non sono che i contorni di un enorme e articolato disegno della loro storia.
Così come Ruthmore riempie di disegni e schizzi i suoi taccuini di viaggio, per non dimenticare e per documentare tutto ciò che osserva, altrettanto la pelle dei Giganti e delle Gigantesse contiene il disegno, la mappa delle loro esistenze.

Gli ultimi giganti, François Place, L’Ippocampo, 2009
Accanto ai loro enormi profili che appaiono ritratti sulle schiene di ciascuno, ora compare una minuscola figura umana con un cilindro sulla testa: il viaggiatore scientifico è entrato nella loro vita, nella loro storia, nella loro memoria, sulla loro pelle.

Gli ultimi giganti, François Place, L’Ippocampo, 2009
La nostra pelle è in qualche misura muta, tuttalpiù balbetta qualcosa di noi attraverso le rughe o le cicatrici che la attraversano, la increspano e la trasformano, mentre la pelle di queste creature racconta ad alta voce la loro storia, è in qualche misura mappa della memoria, man mano che si dipana la loro esistenza.
Quello che noi esseri umani conserviamo allo scuro ma che, come avviene per tutti i viventi, è il frutto della stratificazione continua del nostro vissuto e che contribuisce a costruire il nostro personalissimo io, nei Giganti è sotto gli occhi di tutti.
Incidere una traccia evidente del nostro percorso, una sorta di memoria storica di chi siamo, non è questione da poco e l’invenzione letteraria che offre Place fa riflettere. L’espediente della pelle come foglio di carta bianco, in continua trasformazione per i segni del vivere che vanno a posarcisi sopra, suggerisce un paragone con un altro libro, che racconta la meraviglia della raffigurazione del passare del tempo: Lo stralisco di Roberto Piumini. Le pareti che circondano e racchiudono il piccolo Madurer malato sono un altro ‘foglio bianco’ su cui Sakumat, il pittore, sta per cominciare a raccontare con i pennelli e i colori il mondo.

Lo stralisco, Roberto Piumini, Edizioni EL, 1993
Madurer però teme il limite della pittura: l’errore. “Se sbagliamo… se non facciamo le figure come vanno fatte, dovremo tenerle per sempre”. La risposta di Sakumat arriva immediata: “Forma cancella forma, colore copre colore”. Questo che sembra un espediente dettato dall’esperienza, nelle mani del pittore diventa qualcosa di più. Il mutare del mondo, dovuto anche allo scorrere del tempo, non trova un suo preciso corrispettivo nella sua rappresentazione: il suo limite è dato dalla impossibilità di riprodurre i cambiamenti in corso. Un albero in autunno con i suoi rossi e i suoi bruni, sarà diverso da se stesso, fatto di verdi pastello, nella primavera successiva e la sua rappresentazione dovrà necessariamente moltiplicarsi. Ma Sakumat, forte e consapevole del fatto che forma cancella forma e colore cancella colore, dipinge sulle pareti che avvolgono Madurer campi erbosi, o montagne, o mare che cambiano con il cambiare delle stagioni. Ma fa ancora di più, dà forma all’immaginazione di quel bambino, trasformando il segno di una roccia nel profilo di un capanno, a seconda che Madurer esprima il desiderio dell’uno o dell’altra.
In fondo dipingere, così come disegnare mappe, non è solo riprodurre la realtà così come la colgono i nostri occhi o come ci viene raccontata. L’origine del disegno è spesso nel sogno o nell’immaginazione. L’erba luminosa, lo stralisco, è esemplare in tal senso.
In questa prospettiva anche la cartografia, che è considerata propriamente una scienza, può diventare essa stessa un’arte. Lo diventa nel momento in cui si fa portatrice di “quel leggerissimo tremito” che risiede nella mano, nell’orecchio e nello sguardo di chi disegna le carte e che è “la sorpresa stessa di esistere”. Ancora una volta le parole di François Place, nel meraviglioso Il segreto di Orbae.
Sorvolando con crudeltà su quasi tre quarti di questo denso romanzo di avventura e di amore, si arriva a uno dei nuclei di senso più interessanti del libro, che di nuovo ruota intorno al significato ultimo di una mappa.

Il segreto di Orbae, François Place, L’Ippocampo, 2012
Ziyara si dispera per il mancato ritorno di Cornelius, il suo amore, partito alla ricerca della Montagna Azzurra nelle Terre Interne, luogo mitico ai confini di Orbae. A capo del Palazzo dei Cosmografi, la donna ha libero accesso alla Carta-Madre, la mappa che riassume in sé tutti i racconti di coloro che sono partiti in esplorazione e poi tornati a raccontare. Se da un lato Ziyara sa che la cartografia è un’arte che richiede grandi interpreti, dall’altro è anche consapevole del fatto che le Terre Interne pur di non smentirla, fanno dei suoi disegni, dei suoi tracciati, delle sue elucubrazioni leggi di natura; dunque i suoi segni e i suoi sogni sulla pergamena possono diventare realtà alle pendici della Montagna Azzurra.

Il segreto di Orbae, François Place, L’Ippocampo, 2012
E allora Ziyara, con il pennello, disegna e ridisegna il destino del suo uomo. Ancora una volta, come già sulla pelle dei Giganti, la vita entra in una mappa e la cambia. Ma qui il racconto si spinge ancora più in là: un destino può cambiare se è la mappa a decidere per lui.
Alla fine di questo percorso tutto letterario può accadere dunque di ritrovarsi all’ideale punto di partenza, seppure con un lieve scarto di senso: le mappe cambiano la vita, come accade a Ruthmore, ma è anche la vita a cambiare le mappe, come si è visto sulla pelle dei Giganti, ma sono di nuovo le mappe a modificare un destino, se è vero che la salvezza di Cornelius è nei disegni che Zaiyra traccia sulla Madre di tutte le carte.

Il segreto di Orbae, François Place, L’Ippocampo, 2012
È bello crederci.
Bibliografia:
Gli ultimi giganti, François Place, L’Ippocampo, 2009, Milano.
Lo stralisco, Roberto Piumini, Edizioni EL, 1993, Trieste.
Il segreto di Orbae, François Place, L’Ippocampo, 2012, Milano.