Lo stralisco di Roberto Piumini è un capolavoro della narrativa italiana ristampato in varie edizioni più e più volte.
È un libro ispirato, intenso, che regala a ogni lettura dei particolari nuovi, dei sentimenti nuovi, un modo di vedere la vita che cambia e si modifica ogni volta che lo rileggiamo. Le riflessioni intorno a questo libro si sono concentrate, per lo più, intorno a due dei suoi temi centrali: la malattia e morte del bambino e il rapporto tra il pittore e la sua creazione.
Altrettanto importante, a mio avviso, è analizzare il rapporto che Madurer può instaurare con la vita attraverso la mediazione della natura dipinta in divenire, su cui si centra il mio intervento.
Lo stralisco è citato da tutti gli storici della Letteratura per ragazzi perché ha dato la misura reale di quanto un capolavoro possa essere tale a prescindere dalla sua destinazione precipua. Teresa Buongiorno, nel suo Dizionario della Letteratura per ragazzi, si chiede addirittura come mai Einaudi non destinò questo libro alla collana “I Coralli”, prestigiosa e storica collana per adulti. Dopo lo straordinario successo editoriale, in realtà, tante furono le edizioni in cui fu inserito Lo stralisco, con e senza illustrazioni. E mi auguro davvero che tanti adulti abbiano avuto l’occasione di leggerlo.
Hamelin dedica allo Stralisco una importante riflessione nel suo I libri per ragazzi che hanno fatto l’Italia (Hamelin, 2011):
“Lo stralisco contiene molte delle tematiche al centro dell’intera opera [di Piumini]: l’ascolto, come momento fondante di una creatività corale e partecipata; la natura, rivelata non tanto nel paesaggio quanto nel ciclo di vita e morte; la metamorfosi, la trasformazione di cose e parole in altre forme, che è appunto il libero gioco dei significanti possibili per possibili significati; il tempo e con esso la memoria, il ritorno ai segni già lasciati per rivederli, arricchirli, continuarli; lo stile semplice e lineare che nasconde una colta, raffinata padronanza di moduli espressivi tradizionali e schemi letterari; e soprattutto la narrazione nel suo farsi, quasi che Piumini ci invitasse a sbirciare nel suo laboratorio.” (pag. 186)
Entriamo dunque dentro al racconto, immergiamoci completamente in queste parole piane e pulite.
Malatya è una città della Anatolia orientale, in mezzo a montagne pietrose e nude.
Eppure, proprio lì viveva il pittore Sakumat, famoso in tutta la regione per i suoi dipinti paesaggistici ricchi e bellissimi:
“Sebbene nella vallata pietrosa di Malatya non splendessero grandi bellezze, Sakumat dipingeva stupendi paesaggi e altri ne inventava, disponendo forme e colori […]. Quanto ai paesaggi che immaginava, chissà dove li aveva veduti: nemmeno lui lo sapeva. Forse non esistevano in nessun luogo del mondo e in nessun sogno umano: però erano, a vederli, come vera terra, toccata e profumata. Più li si guardava, più il corpo fuggiva attraverso gli occhi e si trasferiva intero e vivo in spazi colorati e ricchi di pace.” (Lo stralisco, pag. 5-6)
Già da queste prime parole intuiamo che pur nella nudità di un paesaggio arido, l’occhio umano ha necessità di vivere nella natura più verde e rigogliosa, vera o dipinta che sia. Dove non può la natura reale, dunque, interviene l’uomo, con la sua fantasia, la sua creatività, la forza della sua immaginazione.
I dipinti di Sakumat venivano richiesti da persone ricche e meno ricche, per abbellire un portico, per decorare una stanza, per rallegrare un davanzale.
Ci possiamo immaginare questi dipinti quasi come trompe l’œil, dipinti che emergono dallo sfondo per giocare con chi abita la stanza, con quell’inganno visivo che tanto piace, da sempre, all’uomo (abbiamo prove di trompe l’œil già dall’epoca greca e romana: un esempio bellissimo è rappresentato dai dipinti parietali di Pompei e della casa di Livia a Roma).
Chissà come, la bravura di questo pittore giunge alle orecchie del burban Ganuan, che chiede al pittore i suoi servigi. Addirittura, per convincerlo, gli regala un giovane cavallo focoso. Un burban che abita a un giorno di cammino, in mezzo alle montagne pietrose dell’Anatolia. Sakumat il pittore accetta, forse più per l’insistenza che per il regalo. Perché proprio lui? Perché insistere così tanto, cercando di anticipare ogni minima obiezione? La curiosità, quella stessa che gli impedisce di smettere di dipingere anche se non ha una commissione, lo spinge a percorrere il cammino.
Il paesaggio si mantiene arido e inospitale: pochi e radi alberi, montagne nude e aspre.
Fino ad arrivare a un altopiano con campi coltivati, boschetti di cedro, fiori. E in mezzo un palazzo bianco, il palazzo del burban.
È estremamente importante che Sakumat viva tra queste aride montagne, che percorra strade deserte e senza elementi naturali verdeggianti. La sua mente dovrà rimanere incontaminata e fluida, ricca di immaginazione e pura. Perché la richiesta del burban è spiazzante: Sakumat dovrà dipingere tre stanze fino a quel momento lasciate completamente bianche, stanze poste al centro del palazzo, stanze senza finestre e senza nessun tipo di contatto con l’esterno, stanze che prendono aria e luce da lucernai altissimi protetti da garze. Il figlio di Ganuan, infatti, ha una malattia talmente invalidante che gli impedisce qualunque escursione all’aperto. Tutto è nocivo per lui: la luce, il sole, la polvere, il polline dei fiori, la stessa aria. Eppure l’undicenne Madurer non è triste o soffocato da questa gravissima malattia: è un bambino allegro, curioso, gentile, affettuoso. Si è adattato a una vita a metà, trovando nei giochi e nei tanti libri a sua disposizione una modalità di esistenza buona e felice.
Perché solo ora dipingere queste stanze? Perché aspettare tanti anni? Il racconto non lo dice, possiamo però entrare nella mente dello scrittore, sollevare ipotesi, metterci dalla parte del bambino. Undici anni è una età di passaggio: il bambino mostra curiosità e indipendenze diverse, vuole uscire da casa, incontrare gli amici lontano dallo sguardo protettivo dei genitori, vuole, anche, iniziare a esplorare il mondo che lo circonda. Come fare se non si può uscire, pena grandissime sofferenze? Ganuan è un padre presente nella vita del figlio, molto attento alle sue necessità fisiche e psicologiche, si interessa dei suoi giochi, delle sue letture, lo sguardo è sempre sul bambino: uno sguardo preciso, a volte indagatore, non geloso. Si era forse accorto di questa necessità implicita e non dichiarata? Vedeva un’ansia diversa in suo figlio? Oppure sa che poco tempo rimane ancora da vivere al bambino? E se volesse dare l’opportunità al bambino, in maniera lenta, “educativa” mi viene quasi da dire, di capire che prima o poi dovrà morire? La malattia è molto grave, infatti. Due o tre crisi all’anno prostrano terribilmente Madurer, lo lasciano sempre più stranito, debole, forse gli impediscono una crescita armoniosa.
Sakumat arriva a casa del burban dopo una di queste crisi. Madurer è convalescente, è ancora debole, eppure questo incontro ha la capacità di accelerare il processo di ripresa fisica. Dipingere le stanze diventa un nuovo, entusiasmante gioco, da progettare insieme, coinvolgendo anche il padre e tutti i servi.
Madurer non è mai uscito di casa, mai si è potuto affacciare a una finestra: il suo unico sguardo esterno è rappresentato dai meravigliosi libri illustrati che il padre gli porta regolarmente a casa.
Madurer non è mai uscito di casa, mai si è potuto affacciare a una finestra: il suo unico sguardo esterno è rappresentato dai meravigliosi libri illustrati che il padre gli porta regolarmente a casa. Ha una fantasia incontaminata: tutto può avvenire tra le pareti delle sue stanze, perché tutto è possibile nella sua immaginazione. Madurer, inoltre, non ha mai avuto esperienza reale di vita e di morte: non essendo mai uscito di casa, ha sempre e solo vissuto la natura come espressione statica e fissata in un libro. Non ha mai visto un albero “morire” in inverno per poi rivivere in primavera, non ha mai visto animali nascere crescere e morire. Conosce tutto solo attraverso rappresentazioni finte, mediate dagli occhi altrui, fissate nei limiti angusti di una pagina o di un quadro.
“Ogni tanto, quando il bambino scompariva alla sua vista, il pittore dava una rapida occhiata alle pareti chiare della stanza in cui si trovava, e provava a immaginare figure e colori: ma le grandi superfici restavano chiare anche nel suo pensiero, come se la loro bianchezza fosse più potente dell’immaginazione, e sciogliesse in sé i suoi progetti.” (Lo stralisco, pag. 18)
Sakumat comprende subito che questo progetto visivo sarà completamente differente da tutto ciò che ha dipinto fino a quel momento. Non è il suo progetto: dovrà mettersi al servizio della fantasia di Madurer, con umiltà, partecipazione, capacità di ascolto.
Ed è quello che prova a fare: ascoltare, assecondare, giocare.
Sakumat diventa un amico, un consigliere, un esecutore, un compagno di giochi, un alter ego del bambino. Prima di mettersi ai pennelli lo ascolta raccontare le meraviglie che la testa del bambino contiene. Undici anni di letture, di sguardi assorti ai libri, di cavalcate nel campo della fantasia, hanno prodotto in Madurer una foresta di pensieri sull’esterno che vanno accolti e coordinati, anche. La parete bianca diventa una fucina per entrambi.
“Nel giorni seguenti Sakumat e Madurer stettero molto insieme, giocando e parlando.
– Che cosa dipingerai, Sakumat? – chiedeva il bambino.
– Non lo so ancora, Madurer. Ci ho pensato molto, ma la mia mente è rimasta vuota, bianca come le pareti di questa stanza.
– Però dipingerai, vero?
– Certo, Madurer. Ma prima bisogna che ne parliamo, io e te. Bisogna che decidiamo quali sono i nostri desideri.” (Lo stralisco, pag. 20)
Parlare, decidere: è questo il segreto della bellezza del rapporto tra Sakumat e Madurer; è un rapporto alla pari, dove non c’è l’adulto che insegna dall’alto di uno scranno e il bambino che come una spugna assorbe. Il ruolo del pittore si modifica con il tempo e nel tempo passato con il bambino.
Dipingere completamente le tre stanze: questo il progetto. Portare il mondo esterno, inaccessibile, all’interno: nella creazione del mondo dipinto, anche l’idea di poterlo dominare e controllare, questo mondo così ostile per Madurer. E, soprattutto, imparare a conoscerlo. Una occasione di scoperta e di crescita. Carla Ida Salviati, nel suo recente Il primo libro non si scorda mai (Giunti, 2016), afferma: “Il recupero del topos ottocentesco del malatino non intende però muovere a compassione: piuttosto qui serve a definire il rapporto adulto/bambino, che dunque si carica di metafore e di sfumature modernissime. Soprattutto, però, trova le parole giuste per dire il coraggio, l’audacia addirittura, dell’azione educativa” (pag. 26)
Il timore di sbagliare, però, colpisce il bambino:
“- Da dove cominciamo, Madurer? – chiese un mattino il pittore, dopo molti giorni di progetti e conversazioni.
– Siamo davvero pronti, Sakumat? – chiese il bambino.
– Vedi quanti pennelli? Abbiamo ogni tipo di colore. Il burban tuo padre ha fatto arrivare per noi gli oli e le polveri colorate più preziose tra quelli che i mercanti portano dalla Persia con i cammelli.
– Non intendevo questo, Sakumat. Io chiedo se… siamo sicuri delle cose da dipingere.
– Abbiamo qualche idea, Madurer.
– Sì, certo. Ma non bisogna sbagliare.
– Perché dici questo? Perché non bisogna sbagliare?
– Perché se sbagliamo… se non facciamo le figure come vanno fatte, dovremo tenerle per sempre.” (Lo stralisco, pag. 36)
La creazione non prevede errori? Eppure c’è spazio per lo sbaglio, per la ripetizione, per la cancellazione, come assicura il pittore.
I bambini hanno paura di sbagliare e vivono gli errori con molta ansia, disagio, preoccupazione.
Madurer in questo non è diverso: sbagliare sarebbe un fallimento. Ma sbagliare e cambiare idea, come avverrà nel seguito del romanzo, dove le stanze si modificheranno e cambieranno con il procedere della malattia del bambino, è espressione di crescita e di maturazione. Il bambino ha sempre e solo visto le figure attraverso i libri: ha dunque una percezione della natura come fissa, immutabile, immodificabile. Poterla vivere, ecco la vera conquista.
La creazione del mondo procede per giorni, in una conoscenza sempre più approfondita tra Sakumat e Madurer. Il pittore segue la fantasia del bambino, la accoglie e la spinge sempre più in là: prepara delle sorprese, dipingendo di notte le visioni diurne di Madurer.
La creazione del mondo procede per giorni, in una conoscenza sempre più approfondita tra Sakumat e Madurer. Il pittore segue la fantasia del bambino, la accoglie e la spinge sempre più in là: e prepara anche delle sorprese, dipingendo di notte le visioni diurne di Madurer.
“- Che cosa è quello? – chiese un mattino Madurer, dopo aver osservato a lungo, in silenzio, un tratto dell’orizzonte marino.
– Quello? È il mare.
– No! Quello… – indicò il bambino, – quel piccolo punto sul mare, un po’ a sinistra della nuvola. Lo vedi?
[…]
– Non so cosa sia, Madurer, – disse il pittore, – non lo avevo mai visto, prima. Però qualcosa deve essere. Non è un uccello?
– No, se fosse un uccello sarebbe un po’ sollevato dall’orizzonte, o del tutto invisibile. Ma cosa potrebbe essere, Sakumat? Potrebbe essere un’isola lontanissima?
– Certo. Oppure potrebbe essere un’isola non troppo lontana, ma piccolissima.
– Oppure, potrebbe essere una nave!
– Sì.
– Come facciamo a saperlo, Sakumat?
– Basta che aspettiamo. Se domani c’è ancora, vuol dire che è un’isola. Se non c’è più, o si è avvicinato, è una nave.
– Allora aspettiamo.
Il mattino dopo, appena sveglio, il bambino corse vicino alla parete.
– C’è ancora, guarda! È diventato più grande: è una nave che si avvicina!” (Lo stralisco, pagg. 55-56)
Dipingere diventa occasione di gioco: si gioca una battaglia, una nave di pirati, una città assediata. Il pittore è capace di seguire i racconti del bambino che improvvisa scene immaginate di guerra e le vuole riprodotte sul muro.
E quando la malattia ha di nuovo il sopravvento sul corpo fragile del bambino, la terza stanza non ancora dipinta diventa un prato sperimentale: il bambino vuole infatti vedere crescere il suo prato nel tempo. Madurer prende possesso anche del tempo, lui che di tempo per vivere non ne avrà più molto.
E finalmente, Madurer, in una tregua alla sua malattia, chiede di poter dipingere. E nel fare insieme, si realizza compiutamente anche l’atto educativo pensato dal padre Ganuan verso il figlio. Un pittore-educatore che possa compiere il miracolo per il figlio: una crescita fisica e spirituale, che possa allontanare il pensiero della morte, o renderla meno dura per tutti.
E quando Madurer impara a disegnare, l’atto creativo si compie interamente: non più solo progettista della natura intorno a lui, non più solo osservatore del lavoro del pittore, il bambino diventa Il Creatore; l’invenzione di una pianta misteriosa, che si illumina al buio, è la presa di coscienza del processo creativo. Madurer domina la natura, è sua, ora. Ma la natura dominata è anche una natura che cresce, che vive, che si trasforma e che può, anche, morire.
“Madurer, un giorno, cominciò ad aggiungere delle spighe sottili, dorate, che spiccavano nell’erba e spingevano, però non troppo, la loro cima nell’azzurro del cielo.
– È arrivato il grano, nel nostro prato? – disse sorridendo Sakumat, che si fermava qualche volta alle spalle del bambino, a guardarne il lavoro. – L’ha portato il vento fino qui, dalla grande vallata del Firat?
– Non è grano, – rispose Madurer serio serio, – queste non sono spighe di grano.
– Non è grano? Però sembra grano: un grano sottile…
– Sì. È simile al grano. Ma sono spighe di stralisco.
– Stralisco? È una pianta che non conosco, – disse Sakumat, avvicinando con curiosità la faccia a una delle spighe dipinte, per studiarla meglio.
– Nessuno lo conosce, – disse Madurer, – è una specie di pianta luminosa.
– Luminosa?
– Sì, splende nelle notti serene. È una specie di pianta-lucciola, capisci? Noi adesso non la vediamo splendere, perché è giorno. Ma di notte lo stralisco illumina il prato.” (Lo stralisco, pagg. 75-76)
Ma la vita, inesorabile e crudele, arriva alla fine: a Madurer non rimane forse che un anno di vita. Ganuan e Sakumat sono distrutti da questa scadenza, dalla visione del bambino che sempre più debole smette di dipingere, poi di giocare, poi quasi di parlare. Ha solo la forza di guardare, dal suo lettuccio che i servi gentili spostano dove egli voglia.
Sakumat comprende che l’unico modo è far morire, insieme al bambino, anche la sua creazione: in fondo l’inverno è la morte della natura. L’ultimo atto da educatore è quello di spiegare a Madurer la forza del ciclo vitale, la natura che si trasforma, che nasce, cresce e muore. Cosa che ogni bambino vive sulla sua pelle anche semplicemente guardando il breve ciclo vitale di un fiore.
“- Costruire nuove stanze è una buona idea, – disse Sakumat. – Ma io ne ho una migliore.
– È quella a cui hai pensato in questi giorni?
– Sì, e mentre ci pensavo diventava più bella.
– Allora dimmela, Sakumat.
– Ecco: se noi continuiamo le pareti, non potremo più dominare il paesaggio. Voglio dire che diventerà troppo grande per giocarci davvero. Resterà per molto tempo uguale, e sarà meno vivo.
[…]
– Vuoi dire che i nostri paesaggi possono continuare? – disse.
– Possono continuare, sì. E cambiare. Se noi vogliamo.
– Cambiare come? Diventare più belli?
– Sono già belli, Madurer. Ma possiamo andare avanti nella storia, aggiungere il resto della vita.” (Lo stralisco, pagg. 83-85)
Le tre stanze vengono piano piano modificate. Il pastore Muktul della prima stanza invecchia, regala parte del gregge, il suo stesso aspetto fisico cambia. Si avvicina l’inverno, compare la neve sulle montagne, gli orsi sono rientrati nelle grotte.
Piccole modifiche giorno per giorno, perché Madurer, Ganuan, Sakumat e tutte le persone intorno prendano coscienza della fine.
Un percorso pietoso e piano, lento, come lenta è la malattia del bambino.
Rimangono le parole e i racconti. Ridipingere è occasione per una ripresa delle storie più belle, per raccontarsele di nuove, inventare nuovi particolari.
La vita che procede per alcuni e che per altri si ferma.
Il prato sente una stanchezza felice, – disse il bambino, con il tono di chi rivela un segreto, – come quando si corre molto nel gioco. Il prato ha corso molto…
Ma sempre, sempre, il ciclo vitale che inesorabile avanza. Il dipinto segue anche l’umore del pittore, che vede la vita scivolare via dal corpo del suo amico.
“- Padre, vedi? Il prato si addormenta, – disse Madurer.”
Tre volte questa frase ripetuta al padre.
“- Padre, sai cosa prova il prato?
– Vuoi dire l’erba?
– Sì, l’erba, i fiori. Anche quello che non è erba e fiori. La terra, gli animali, i piccoli sassi, le radici. Il prato. Tutto il prato. Sai cosa prova?
– Ti ascolto, – e Ganuan avvicinò la testa a quella del figlio.
– Il prato sente una stanchezza felice, – disse il bambino, con il tono di chi rivela un segreto, – come quando si corre molto nel gioco. Il prato ha corso molto…” (Lo stralisco, pagg. 104-106)
Una stanchezza felice.
Ed è tutto qui il segreto di questo meraviglioso libro.
Madurer muore, ma è pervaso da una stanchezza felice. Perché ora sa che nella vita c’è anche la morte. Lo ha imparato, l’ha accolta dentro di sé, l’ha sperimentata dipingendo, l’ha giocata, raccontata, infine vissuta.
Madurer, infatti, è nato, cresciuto, vissuto, morto.
Come il suo prato.
Come il suo prato.