Sentieri Naturali

La vera natura degli orsi

Written by Beniamino Sidoti

I libri per ragazzi sono pieni di orsi. Certo, ci sono anche libri con lupi, e innegabilmente esistono diversi libri per bambini e ragazzi con topi. Ma oserei dire che gli orsi sono di più.

Ok: stima approssimativa, ma non è questo il punto.

Il punto è capire che cosa comunichiamo oggi ai bambini attraverso gli orsi: perché il loro (e il nostro immaginario) è pieno di orsi e orsetti, e in minor misura di canidi e di roditori.

A me interessa ragionare su quanto tutto questo abbia a che fare con la natura, e che cosa racconti della natura o del nostro bisogno di selvaticità.

Primo dato, storico: gli orsi entrano a far parte dell’immaginario fiabistico e infantile relativamente tardi, agli albori della nascita della cultura di massa, nei primi anni del Novecento, quando vengono commercializzati i primi orsacchiotti di peluche. Prima di questa data, gli orsi sono creature relativamente marginali nell’immaginario bambino e adulto: compaiono nel classico anglosassone Riccioli d’oro e i tre orsi, compaiono nella tradizionale fiaba russa Masha e orso (li rivedremo), e in un pugno di altre leggende e storie fantastiche. Oggi cercando su qualsiasi libreria on line possiamo trovare migliaia di titoli “con orsi”.

L’episodio che segna l’inizio della fortuna degli orsi è noto: nel novembre del 1902 il presidente degli Stati Uniti Theodore Roosevelt si rifiuta, durante una battuta di caccia, di sparare a un orso che è stato legato e bloccato perché lui possa vantarsi di una preda così importante. All’episodio viene data enfasi da alcuni giornali, che ribattezzano subito l’orso “Teddy”, come il presidente; in particolare Berryman sul “Washington Post” fa una vignetta satirica in cui l’orso, un esemplare adulto, viene rappresentato come un orsetto.

La prima apparizione del Teddy Bear, “Washington Post”, 1902

La prima apparizione del Teddy Bear, “Washington Post”, 1902

 

Il nome e il disegno piacciono e nel corso delle settimane l’orso si fa sempre più orsetto: tondo, tenero e puccettoso. Nel febbraio del 1903 compaiono in vendita i primi orsetti di pezza, per strade diverse, a New York (in quella che poi sarà la Ideal Toy Company) e in Germania (per la Steiff). Da qui proviene per derivazione diretta Winnie-The-Pooh, che esordisce negli anni Venti per la penna di A. A. Milne, il suo coetaneo Rupert, e poi per fama acquisita Paddington, Petzi, Orso blu, Baloo e Yoghi, Napo orso capo e Piccettino.

Una pubblicità dell’epoca della Ideal Toy Company

Una pubblicità dell’epoca della Ideal Toy Company

 

Altri orsi senza nome compaiono in molti libri per l’infanzia, più o meno originali e riusciti, tra cui alcuni cui sono legatissimo: A caccia dell’orso di Rosen e Oxenbury (ed. or. 1989; traduzione italiana di Chiara Carminati, Mondadori, 2001), Orsetto [o Orsacchiotto, di Else Holmelund Minarik, illustrato da Sendak ed edito in Italia da Bompiani prima, Rizzoli poi e quindi Adelphi], e lo stesso Winnie-The-Pooh. Per una storia più documentata e per maggiori dettagli rimando al recente saggio di Roberto Franchini, Il secolo dell’orso (Bompiani, 2013).

Orsetto di Sendak

Orsetto di Sendak

 

Secondo dato, simbolico: la presenza dell’orso non è solo aumentata, ma cambiata come tono e qualità. Se durante la battuta di caccia del 1902 alcuni troppo zelanti aiutanti catturano per Roosevelt una fiera belva, quello che il presidente libera è un tenero animale. Come nota Franchini stesso, l’orso viene umanizzato, viene tolto dal bosco, dalla selva: è l’uomo che ha perso il proprio rapporto con la selvaticità, a volte babbeo, a volte ingenuo, sempre imbranato e poco a proprio agio con l’essere uomo e con la modernità. Questo lungo percorso di profanazione del selvatico parte da lontano, e già durante il Medioevo l’orso perde il significato di fierezza per diventare un essere sgraziato, l’orso che viene fatto ballare nelle fiere (qui rimando a un altro saggio: Michel Pastoureau, L’orso. Storia di un re decaduto, Einaudi, 2008).

L’orso è quindi, nell’ultimo secolo, simbolicamente, l’uomo che deve adeguarsi alla civiltà: e quando si parla di infanzia, è il bambino che per crescere deve cogliere e capire le regole. L’orso è un bambinone imbranato che da una parte non vuole svegliarsi dall’altra non sa ballare o fare amicizia, ora cerca di capire come funzionano le scale mobili e un momento dopo si vergogna dei propri sentimenti.

Il monumento all’orso Paddington nella stazione Paddington di Londra

Il monumento all’orso Paddington nella stazione Paddington di Londra

 

Eppure tutto questo non basta: perché rimane sempre fuori qualcos’altro. Proviamo a vederlo stavolta con gli strumenti della filologia e non dell’antropologia, esaminando più da vicino alcune storie per ragazzi.

Cominciamo da A caccia dell’orso: il rapporto con il selvatico compare fin dalla prima tavola, con una famiglia (un adulto, un cane, quattro bambini di cui uno ancora non cammina) che esce di casa per andare a caccia grossa, proprio come aveva fatto Roosevelt nel 1902.

Michael Rosen e Helen Oxenbury, A caccia dell’Orso, traduzione di Chiara Carminati

Michael Rosen e Helen Oxenbury, A caccia dell’Orso, traduzione di Chiara Carminati

 

Il testo è in prima persona plurale (“A caccia dell’orso andiamo”) e alterna un ritornello a dei suoni onomatopeici; per andare “a caccia” bisogna infatti attraversare la natura nelle sue varie forme: il bosco, il fiume, il fango, il vento… Anche l’illustrazione segue questo ritmo interno, con una cesura forte e immediata data dal colore presente solo nelle tavole onomatopeiche (le altre sono all’inizio in bianco e nero), e delle sfumature che la accompagnano in maniera meno dichiarata (le immagini in bianco e nero prendono sempre qualcuno, o tutti, di spalle, mentre il punto di vista delle figure a colori è rovesciato; le immagini in bianco e nero sono ravvicinate, quelle a colori da distanza… come se le tavole in bianco e nero rappresentassero un osservatore che guarda la scena in soggettiva, chiamando il lettore in causa nella messinscena).

Una delle scene “di spalle” e in bianco e nero del libro

Una delle scene “di spalle” e in bianco e nero del libro

 

I luoghi naturali seguono un crescendo avventuroso, fino ad arrivare effettivamente a una caverna, che immaginiamo ben lontana da casa, in cui l’orso c’è davvero. Ed è un orso spaventoso, pauroso, non addomesticato, non antropomorfizzato.

La storia diventa ora tutta a colori e ripercorre i vari ambienti e ripropone i vari suoni, fino a tornare in casa, su per le scale e dentro il letto: l’orso li insegue, ma rimane fuori della porta di casa. Il testo recita: “A caccia dell’orso non andiamo più”.

L’ultima apertura del libro

L’ultima apertura del libro

 

Apparentemente Rosen mette in scena un orso pienamente selvatico, una creatura di cui aver paura – eppure, ed è particolarmente evidente quando si legge questa storia ad alta voce, capiamo che questa paura è una paura per gioco (“Ma che bella giornata! Paura non abbiamo”), che forse l’intera passeggiata sta accadendo per gioco. Proviamo a cercare indizi. Un indizio piuttosto forte ce lo dà l’ultima apertura: l’adulto, il cane e tre dei quattro bambini stanno guardando il lettore, cosa rara in un albo illustrato e in generale nell’illustrazione: il quinto bambino, il più piccolo, sta invece guardando, felice, un orsacchiotto di peluche.

È un’immagine che sta sotto i nostri occhi eppure non è evidente: l’espressione del bambino dice “ti ho trovato”. In effetti, riguardando le tavole a ritroso, l’orso non c’era. Nel momento in cui anche la mancanza, anche ciò che non c’è, diventa significativa, capiamo che forse tutta la caccia è avvenuta “davvero” e in forma di gioco, alla ricerca dell’orsacchiotto perduto.

Però sappiamo, almeno lo sappiamo noi lettori adulti in qualche modo anche poco precisato, e lo sanno i lettori bambini, che l’orso non è un animale a casaccio: è tutto ciò di cui abbiamo paura, ed è l’avventura che ci spinge a cercarlo. E siccome siamo dentro a un gioco, il gioco della caccia all’orso, sappiamo che è una paura e un’avventura di cui abbiamo bisogno, che servono.

L’orso triste se ne va

L’orso triste se ne va

 

Andiamo avanti per indizi: i due risguardi mostrano una spiaggia, prima vuota e illuminata a giorno, poi notturna e con uno sconsolato orso che se ne sta tornando indietro, visto di spalle. Dove sta andando? Molto probabilmente alla grotta, o a casa: sottolinea così al piccolo lettore che la caccia “dell’orso”, il suo tentativo di catturare la famiglia, non ha funzionato, e che quindi la storia finisce bene. Eppure sottolinea per noi un’altra singolarità dell’albo, quell’alternarsi di colore e bianco e nero che abbiamo visto, e un cambio continuo di punti di vista e, in questo caso, di focalizzazioni. Tutta la storia ci appare come vista “in oggettiva” ma con focalizzazioni diverse, cioè centrandosi su vari personaggi: così l’ultima tavola presenta l’orso a figura intera visto “in oggettiva”.

Torniamo però a vedere tutte le tavole in bianco e nero, e notiamo che c’è sempre almeno una figura di schiena, come già accennato. Di nuovo, come nell’ultima tavola, stiamo parlando di un osservatore, forse un settimo membro della famiglia mai disegnato, ma che partecipa al gioco: forse, in qualche modo, è la mamma, o un altro fratello, che, nel gioco del racconto, sta inseguendo i ragazzi.

Mi fermo un attimo: per me è suggestivo pensare che nella storia ci sia un personaggio non nominato e non rappresentato; però non è necessario, è una nostra spiegazione da adulti. Per il gioco della lettura dei bambini basta che sia messa in scena una significativa e credibile caccia e una altrettanto credibile e significativa fuga: e che nell’esperienza di lettura ad alta voce ci sia anche spazio per un lettore adulto che possa essere a volte l’uomo, a volte l’orso.

Ecco che, nello svolgimento della storia, di una storia ben riuscita, costruiamo un “orso” più complesso di prima: è il selvatico ma è anche chi non riesce a fare qualcosa, è la sfida e la consolazione, è la belva e l’orsacchiotto. È il nostro rapporto con la natura, che è dichiaratamente problematico.

La nuova recente edizione di Compagno orsetto

La nuova recente edizione di Compagno orsetto

 

Gli stessi ingredienti, la paura e il gioco, si trovano in maniera dichiarata in un piccolo libro di Mario Rigoni Stern, Compagno orsetto (E. Elle, 1992, illustrazioni di Angelo Ruta: devo la scoperta di questo libretto ad Alessandra Starace). Qui la storia si presenta fin dall’inizio dichiaratamente realista, collocata chiaramente nel tempo e nello spazio: “Nella periferia di una grande città della Siberia ogni pomeriggio…”, e lì, in questi campi innevati e ghiacciati, uno di questi pomeriggi un orsetto inizia a giocare con i bambini – e la storia è appena cominciata. Cosa può capitare infatti da quel momento? Cosa penseranno gli adulti di questa convivenza tra bambini e orsi? Prima di essere meravigliosa, è pericolosa? La storia di Rigoni Stern si contrappone fin dal titolo al “sogno americano” della convivenza tra orsi e umani, e al mito del buon presidente e del buon orsetto Teddy: una contrapposizione fatta di idee e di una semplice parola, il cui senso non dice più nulla ai lettori di oggi – quel “compagno” premesso a orsetto, che si limita a sottolineare l’ambientazione e un certo bisogno di concretezza, un’esigenza ideologica e generazionale di avere accanto degli animali che siano animali e che continuino a essere altro da noi (caratteristiche simili hanno in genere gli animali nei racconti di Mario Lodi, come lo splendido Il mistero del cane). In Compagno orsetto gli orsi restano orsi, e i bambini (e i cuccioli) restano bambini e cuccioli: c’è nella storia un momento per l’incontro tra cuccioli di specie diverse (due momenti, per la precisione), ma c’è anche un approccio realista che spinge a intervenire per dividere cuccioli di uomo e cuccioli di orso.

Questo sguardo distante mette in luce ciò che c’è di ideologico nel rappresentare gli animali come uomini un po’ strambi, spinti da intenzioni simili alle nostre e dotati di carattere fondamentalmente “umano”. Sotto questa luce potremmo rileggere altre storie di amicizie con orsi bianchi: Griska e l’orso di René Guillot (ed. or. 1958, tradotto per Giunti da Renato Caporali, 1967) o Il mio amico Nanuk (regia di Brando Quilici, Italia-Canada, 2014). Certamente non troveremmo quell’altro orso russo senza nome che si accompagna a Masha.

Esatto, loro due.

Esatto, loro due.

 

Torniamo a Masha: se le prime ondate di orsi del nostro universo simbolico e massmediatico sono state composte principalmente da orsetti, negli ultimi anni stiamo assistendo a una significativa presenza di orsi “adulti”, anche nelle opere per ragazzi, in cui l’orso di Masha arriva buon ultimo. A differenza della fiaba, l’orso di Masha è un classico padre buono, rappresentabile proprio perché non è un padre biologico; in maniera significativa, riproduce a parti invertite il rapporto uomo-animale che troviamo nella Pimpa: se lì abbiamo un cane-bambino che vive con un padre-amico, Armando, qui abbiamo invece un padre-animale affiancato a un bambino terribile.

Siamo in territori molto lontani dal Compagno orsetto, ma anche dalla Caccia all’orso: il selvatico non è più una dimensione presentata al bambino, ma una specie di chimera perduta che dialoga e ammicca al genitore – il selvatico, la natura, è la libertà che precede l’arrivo di Masha. È questa una dimensione molto presente nei lavori televisivi o cinematografici recenti, quasi un luogo comune che troviamo in Peppa Pig come in Monsters & Co: opere che raramente presentano confronti significativi tra specie e tra generazioni, ma si accontentano di riproporre modelli buffi di bambini che sbagliano, e stereotipi adulti guidati principalmente dalla necessità di essere pazienti. L’orso, già detronizzato e reso ridicolo, quindi addomesticato e profanato nella sua selvaticità, diventa un bizzarro servo adulto dei bambini.

Chiudiamo tornando al senso dei primi volumi citati, dentro cui intravedo un intento educativo più preciso, più profondo, più mirato. Cosa ci stanno a fare gli orsi nel nostro immaginario? Quasi sempre rappresentano ciò che non siamo più, o ciò che siamo invitati a non essere più: tramite loro vediamo la natura come qualcosa da cui siamo stati allontanati in nome della civiltà.

Pure, detto questo, siamo da cittadini di questo millennio sempre in grado di scegliere: possiamo con l’orso ancora scoprire la paura e il gioco, l’avventura e la libertà di essere in contatto con un mondo più profondo. Oppure possiamo buttarla in parodia e fare qualche risata rimpiangendo il fatto che una volta qui era tutta campagna. I genitori possono avere bisogno di questo, forse; i bambini però continuano a essere più esigenti, e a chiedere agli orsi non solo di vegliare su di loro, ma di accompagnarli a fare scoperte significative.

L’inquietante orso polare imbalsamato della Casa-museo di Salvador Dalì

L’inquietante orso polare imbalsamato della Casa-museo di Salvador Dalì

 

sull'autore

Beniamino Sidoti

Beniamino Sidoti è autore e ricercatore in proprio: si occupa in particolare degli incroci e dei confini tra narrazione e gioco. Tra gli ultimi suoi libri: Eccetera (edizioni la meridiana, 2013), Dizionario dei giochi (con Andrea Angiolino, Zanichelli, 2010), Lettori in gioco (con Alessandra Zermoglio, Sonda, 2015), Stati d'animo (Rrose Sèlavy, 2017) e Strategie per contrastare l'odio (Feltrinelli, 2019)