Non sono un’appassionata di letteratura horror.
Stephen King, per intenderci, non mi ha mai entusiasmata.
Tuttavia c’è un modo di narrare e scrivere la paura che mi affascina e mi rapisce. È quando la paura si poggia su qualcos’altro e si trasforma in introspezione. Quando racconta i sentimenti, le emozioni, la vita e il crescere. Quando la paura narrata non vuole spaventare, ma scuote, perché fa crescere, cambiare, incontrare; fanno paura tutte le prime volte e non c’è modo di prepararsi, se non quello di sapere di non essere soli, perché ad altri è già successo. Questo vale a 2 anni come a 14.
Mi piacciono le storie in cui la paura è, o diventa, un’amica che conduce verso altri porti. Le storie in cui la paura non blocca ma fa crescere.
In Argilla di David Almond succede proprio questo. La storia ruota intorno a un manipolo di ragazzini e tutto accade in pochi giorni. Il protagonista e voce narrante è Davie, un ragazzino di circa 12 anni che fa il chierichetto e vive con i genitori. Ha un amico del cuore con il quale ruba le sigarette al padre e il vino della messa (piccoli peccati che si affretta a confessare) e forse c’è una ragazzina che gli piace. A stravolgere le sue giornate arriva Stephen Rose, un ragazzino dal passato difficile e dal presente incerto, che vive con una zia che tutti reputano matta.
L’incontro e il legame tra Davie e Stephen sembra casuale, ma forse non lo è. Davie è, in fin dei conti, un “bravo ragazzo” con un’enorme fiducia nella vita e negli altri. Forse è per questo che Stephen lo ha preso di mira. Stephèn, invece, è il ragazzo che ha sofferto, che voleva farsi prete, ma poi ha rinunciato. Il ragazzo strano che scolpisce angeli di argilla. O forse Stephen è il Male, Colui che è nato non si sa come e che riesce a dare vita e morte all’argilla? Non c’è risposta, perché noi siamo intenti a seguire Davie sull’orlo dell’abisso del Male, dal quale il ragazzo si salva grazie alla sua fede nella vita.
Io credo che i ragazzi dovrebbero leggere il libro di Almond in solitudine perché è difficile far vivere l’inquietudine di Davie a un gruppo numeroso. Ritengo sia una lettura intima. Si cresce anche da soli: e questo mi piace molto.
Professionalmente però, mi interessano ancora di più le storie di paura quando diventano un modo per leggere e narrare un’emozione, per raccontare avventure, prodezze e momenti di crescita. Allora mi diverto, perché non mi sembra di entrare nell’intimo dei lettori, ma di giocarci insieme.
Nella collana Il castello della Paura edita da Piemme, la paura sembra legata a fatti più concreti e meno intimistici rispetto ad Almond, anche se a ben guardare ha molto a che fare con la vita e il diventare grande. Nei racconti lunghi (oggi raccolti nel volume Cinque storie per non dormire) i protagonisti si imbattono in situazioni terrificanti.
Ragazzini messi alla prova e costretti a confrontarsi con l’orrore: strane case, bambini scomparsi, adulti strani ed inaffidabili, animali mostruosi, vecchi indiani bislacchi.
Spesso, non me ne vogliano gli autori, prendo la storia scritta e la racconto cercando, senza stravolgerla, di ambientarla nei posti conosciuti ai ragazzi. Basta il nome della strada o il colore di un palazzo o semplicemente una data. In Lupi nella notte bello è anche ciò che nasce con i bambini tra i 4 e i 6 anni quando la paura fa ridere: è il fascino moderno delle leggende urbane.
Più in generale mi piace far collidere l’ignoto (pauroso) con il conosciuto: oltre al brivido è facile evocare la risata. Un caso abbastanza esemplare è la storia di Cornabicorna. Le storie della tremenda strega mangiabambini devono essere giocate usando l’ironia dissacrante che l’autore ci regala, ma anche la sua capacità di creare momenti di puro terrore.
Le avventure di Cornabicorna secondo me vanno lette o narrate mandandole a memoria perché l’uso di un linguaggio “scurrile” e “proibito” fa assolutamente parte della narrazione/lettura.
Se la paura è un’emozione solitaria, il coraggio è anche, per i bambini, un sentimento sociale: è mettersi alla prova come nell’avventura di Leo e Sara in Ti mangio! Ti mangio! ha un impianto quasi cinematografico e le illustrazioni raccontano la storia, come in una serie di fotogrammi, tanto che io credo di averla letta una sola volta e da allora racconto a braccio.
L’ambientazione è quotidiana; il lento prepararsi alla gita nel bosco, rallentato dal nominare cosa sia meglio mettere nello zaino, il soffermarsi sulla mitezza del clima e sulla bellezza del paesaggio preparano al momento in cui il narratore fa notare che proprio lì, alla sinistra della pagina c’è qualcosa che non va. Silenzio, occhi che si aguzzano, silenzio.
Poi qualcuno la vede: un’enorme zampa! E da lì è un susseguirsi di mostri che si divorano l’un l’altro. Il controcanto è dato da Sara che per ogni mostro escogita una nuova bicicletta “leonardesca” (perché lo avete notato, vero, che tutte le invenzioni di Sara sono macchine di Leonardo Da Vinci?) che le permetta di raggiungere il nido o la tana dell’orrido animale e tentare di salvare il fratello.
Di altro tenore, per quanto riguarda la paura, sono due libri che ho nel cuore, ovvero: Quando il lupo assaggiò la bambina di Arianna Papini e Blu di Barba di Barbara Ferraro.
In entrambi, la paura è raccontata con un linguaggio raffinato e non è fine a se stessa. È passaggio iniziatico necessario.
Nel libro di Arianna Papini una bambina sente il bisogno di lasciarsi alle spalle le cose dell’infanzia e di guardare il mondo con occhi nuovi. Il lupo è solo e rabbioso. L’incontro tra i due è paura per la bambina ma anche occasione di incontro persa per il lupo che solo si allontana.
Questo è un libro che va letto e non raccontato perché è nella bellezza piena delle parole che si trova il valore.
In Blu di Barba di Barbara Ferraro la paura e il terrore aleggiano tra le parole e le illustrazioni di Srimalie Bassani.
La fiaba di Barbablù, raccontata in prima persona da una delle mogli uccise che si rivolge alla neo sposa, è avvertimento e dolore per la vita persa, rimpianto per non aver capito. Barbablù appare come uno spietato assassino assetato di potere che gioca, crudele, con l’ingenuità della sposa.
Anche in questo caso il libro va letto. Il ritmo a ballata costringe a una lettura più cadenzata e dinamica del libro di Papini, ma il cospicuo utilizzo di parole piene di R, di P e di G obbligano la lingua a rallentare per non incespicare. Una ballata lenta e ritmata, suoni duri e freddi come lame. Come il coltello di Barbablù.
Seguire il ritmo del racconto, leggere le parole, mi costringe, ci costringe, a usare il libro come uno spartito, e a giocare la paura come una musica, un’emozione costruita dentro una storia. Perché questo avvenga la paura deve essere già nota e conosciuta.

Illustrazione tratta da Aiuto, arriva il lupo!, di Vincent Bourgeau e Cédric Ramadier, Babalibri
Diverso è quindi giocare e leggere la paura con bambini di 2-3 anni. Mi diverte quando loro si aspettano e vogliono essere “spaventati”. Alcuni bimbi, quando nei libri arriva il lupo, chiudono e aprono gli occhi (ho paura, ma voglio vedere) gridando eccitati. Scoprono la paura insieme a me.
Uno dei libri che ho usato di più è Aiuto arriva il Lupo!.
La storia racconta di un lupo che si avvicina sempre più, ma noi, che abbiamo in mano il libro, possiamo, ruotando le pagine, farlo cadere. Il lupo però non desiste! Si rialza e ci viene incontro, sempre più grande! Possiamo però chiudere il libro. E così si può ripartire.
La paura nei libri per bambini e ragazzi è un rito di passaggio fondamentale, impossibile negarla o edulcorarla, bellissimo guardarla, viverla e giocarla.