A mille ce n'è Interviste

Fiaba, antidoto e cicatrice. Intervista a Giovanna Zoboli

Written by LibriCalzelunghe

Giovanna Zoboli ha una prospettiva particolare sulla fiaba, uno sguardo artigiano, di chi ha un profondo rispetto non solo per l’arte, ma anche per i suoi strumenti. Perché nei molti suoi mestieri è editrice e scrittrice, traduttrice e riscrittrice, saggista e acuta polemista.

Così la fiaba non è uno sterile genere letterario, ma uno strumento antico con cui si fanno cose: con cui si incide il nostro immaginario, con cui si va oltre la cronaca; con cui si parla alla coscienza collettiva.

Pensiamo in particolare a un suo articolo, “Far paura ai bambini”, pubblicato su Doppiozero, che parte dal film “Favolacce” dei fratelli D’Innocenzo (2020). Qui lascia cadere una splendida definizione della fiaba, molto “zoboliana”:

“La fiaba, cioè, in tutto il suo intramontabile splendore, la cui ambiguità è quella stessa del cuore umano, che da sempre mette sotto pressione le cattive coscienze e la pervicace vocazione umana alle false verità.”

Libri Calzelunghe: Giovanna, anzitutto: ti ritrovi in questa frase fuori contesto? A cosa serve, secondo te, una fiaba oggi? E a cosa non serve?

Giovanna Zoboli: Sì, mi ritrovo. La fiaba, o meglio le fiabe dato che all’interno di quello che cerchiamo di circoscrivere come genere ci sono una quantità di testi davvero molto diversi fra loro (per lingue, culture, epoche, aree geografiche), sembrano essere un antidoto potente che l’organismo umano ha prodotto e produce per contrastare il male, attraverso la forma del racconto, della narrazione. Un anticorpo sviluppato a contatto con le zone più oscure dell’animo umano, ma non estraneo a esse. Da questo punto di vista, le fiabe continuano a servire allo stesso scopo, dato che a quanto pare il male non dà segni di debolezza: aprirci gli occhi sulla sua esistenza, sulla sua natura, e sulle possibilità di contrastarlo, a partire da noi stessi. Un bell’atto di fiducia nella parola, nel pensiero, nella salvezza e nella bellezza delle forme attraverso le quali rappresentiamo il mondo. Direi che il successo delle fiabe, che dura da qualche migliaio di anni e non accenna a diminuire, è prova della loro efficacia. Per il resto, le fiabe non servono (o non dovrebbero servire) a fare brutti libri, brutti film eccetera.

LC: Che cosa cerchi in una “nuova” versione di una fiaba antica? Come ti avvicini al testo?

GZ: Cerco il guizzo dell’ingegno che poi è la capacità di mostrare quello che non riusciamo a vedere da soli, e cerco la specifica abilità di mostrarlo attraverso la forma della scrittura, della narrazione, e quella della fiaba è sicuramente una delle forme più riuscite messe in opera dalla letteratura per ritmo, precisione, efficacia, rapidità. Nelle fiabe non ci si perde in chiacchiere. Il narratore è un segugio costantemente alla ricerca del mot just. Per questo, come spiega Calvino, fiaba e poesia hanno molto in comune. Fra fiaba e lingua c’è un nesso e un amore profondo che dura da migliaia di anni e scaturisce dall’oralità. Per quanto mi riguarda, direi che è corretta la prospettiva sulla fiaba che mi hai attribuito all’inizio di questa intervista. Come scrittrice mi avvicino con cautela alle fiabe della tradizione per una forma estrema di rispetto e ammirazione; come lettrice, mi avvicino con intenso, direi sconfinato sollazzo, come quando ascolto Mozart o Rossini. Il dizionario online Una parola al giorno dà questa definizione di sollazzo: «Il sollazzo è una forma di divertimento schietto, primaverile, gentile – il più sfaccendato che si possa immaginare, piuttosto lontano dal divertimento frenetico.» Insomma le fiabe per me sono fra i più puri divertimenti, un luogo solatìo.

“C’era una volta una bambina”, Giovanna Zoboli, illustrazioni di Joanna Concejo, Topipittori, 2015

LC: A chi servono le fiabe? In Favolacce, di cui parlavamo prima, sembra che ad aver bisogno della crudeltà delle fiabe siano forse più gli adulti che i bambini stessi…

GZ: Jonathan Gottschall, studioso di letteratura e neuronarratologia, in L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani (Bollati Boringhieri 2014), spiega come le storie si possano considerare un vero e proprio dispositivo biologico specifico della specie umana, uno strumento che ci consente di fare esercizi di simulazione della realtà alla ricerca di soluzioni efficaci quando sulla nostra strada incontriamo ostacoli e problemi: «La finzione,» afferma, «espressa con qualunque mezzo narrativo, è un’antica e potente tecnologia di realtà virtuale che simula i grandi dilemmi della vita umana». Fra le infinite storie che ha creato l’uomo, le più antiche, e quindi le più vicine agli archetipi che governano la nostra mente e le nostre culture, le più prossime alle grandi questioni che ci toccano, sono le fiabe che nelle forme più primitive, certo, non si chiamavano così e non appartenevano a un genere, codificato molto dopo la loro nascita, ma enucleavano nodi narrativi che sono arrivati intatti fino a noi.

Nel capitolo L’enigma della finzione Gottschall spiega anche cosa siano per i bambini i giochi di finzione, ovvero quel “facciamo finta che” a cui abbiamo giocato tutti a nostro tempo. E scrive «Gli adulti hanno la tendenza a ricordare il gioco di immaginazione della loro infanzia come uno spazio paradisiaco perennemente baciato dal sole, quando invece, più che a un paradiso, somiglia a un inferno. Il gioco dei bambini non è un’evasione dalla realtà, bensì un comportamento che affronta di petto i problemi della condizione umana. […] Il gioco di immedesimazione è un divertimento serio da morire. Ogni giorno i bambini entrano in un mondo in cui devono affrontare forze oscure, fuggendo e combattendo per la propria vita.» Non è, peraltro solo Jonathan Gottschall a informarci di questo. Ci sono squadroni di scrittori, artisti, psicoanalisti, psicologi, antropologi e compagnia bella che hanno rilevato il bisogno profondo dei bambini di incontrare la paura nell’elaborazione fantastica, fiabesca, fra cui per esempio Stephen King nel bellissimo saggio Danse macabre, o Bruno Bettelheim in Il mondo incantato o Neil Gaiman, Maurice Sendak, Angela Carter, Marie-Louise von Franz, Alison Lurie per dire i primi che mi vengono in mente. Tuttavia per il mondo adulto questa semplice verità continua a essere difficile da accettare al punto di diventare, nei casi più gravi, un tabù (con tutte le conseguenze del caso). Lo dico non da un punto di vista teorico, ma per aver preso atto, in sedici anni da editore, di quello che molti genitori, insegnanti, educatori eccetera pensano in proposito. Una vera e propria rimozione della realtà.

LC: Ti irrita invece il tentativo di addomesticare l’immaginario? Di depotenziarlo?

GZ: Mi irrita l’ipocrisia che c’è dietro a questa pretesa. E anche la furbizia del mercato e dei mass media nel gratificare gli adulti, che sono i mediatori fra la cultura e i bambini, offrendo non quello che servirebbe loro, ma quello che rassicura gli adulti: mondi oleografici, edulcorati, vacui. Facili da vendere perché rimuovono completamente quello di cui si ha paura e non si ha voglia di vedere e che invece i bambini, tutti giorni, nella realtà incontrano: a scuola, in famiglia, per la strada. Molti adulti sembrano ignorare, infatti, che è nella vita, prima di tutto, e non nei libri o nei film, nella finzione, che i bambini incontrano fatti ‘scabrosi’ o ‘difficili’ o ‘paurosi’. Depotenziare l’immaginario significa togliere forza e valore alla simulazione immaginativa che, al contrario di quanto pensiamo noi adulti, protegge i bambini, li distanzia dalle situazioni paurose, permette loro di capirle, elaborarle e viverle senza pericoli. Gli esseri umani usano da tempi antichissimi questo sistema di rapportarsi alle difficili verità dell’esistenza, basti pensare al teatro e alla potenza della catarsi che consente di fare esperienza del male attraverso il registro simbolico della rappresentazione che libera e purifica.

“C’era una volta una bambina”, Giovanna Zoboli, illustrazioni di Joanna Concejo, Topipittori, 2015

LC: A cosa serve, in modo più profondo, il fiabesco? Pensi che dovremmo ogni tanto abbandonare un’ossessiva narrazione della realtà?

GZ: La realtà è interessantissima, non c’è niente di più interessante della realtà, e sono certa che anche i bambini la pensino così. In questo periodo ho sotto gli occhi una bambina di due anni che gioca con tutto – pentole, citofoni, caschi, sedie ecc. – meno che con i propri giocattoli (un’attitudine che hanno tutti i bambini e che farebbe risparmiare molto i genitori). Per quanto mi riguarda, la letteratura serve esattamente a questo: conoscere, comprendere, approfondire la realtà. Naturalmente la letteratura ha modi e codici propri per fare questo: la finzione ovvero la costruzione di mondi immaginari. Per gli esseri umani la finzione è fondamentale perché non è la realtà, ma della realtà ha la verità (che i due mondi condividono). Sempre Gottschall, spiega: «La finzione consente al nostro cervello di fare pratica con le reazioni a quei generi di sfide che sono, e sono sempre state, le più cruciali per il nostro successo come specie.» Insomma, la finzione è uno strumento di elaborazione del reale potentissimo, e nello stesso tempo di trasformazione. Non solo scrivendo e leggendo abbiamo modo di entrare più a fondo nei meccanismi complessi della realtà e del pensiero, ma anche di modificare la realtà stessa, cambiandone i presupposti sulla base delle soluzioni che attraverso la narrazione troviamo. È un po’ quello che accade con la scienza che ha la matematica come linguaggio. Quello che gli scienziati scoprono della realtà con il supporto della matematica, poi può essere modificato attraverso il linguaggio della matematica che porta alla messa fuoco di nuove soluzioni.

Ciò detto, tengo a chiarire una cosa: finzione letteraria e storytelling, approccio metodologico attraverso cui oggi sembra obbligatorio che tutto debba passare, sono cose diverse, e il secondo non corrisponde alla prima nei termini in cui ho parlato finora, quanto a una pratica massmediatica, pubblicitaria e di intrattenimento degli ultimi venti, trent’anni che spesso ha esiti aberranti, in quanto gioca in modo manipolatorio sulla presa emotiva del pubblico. La differenza fra realtà e finzione è una consapevolezza che dovrebbe sempre rimanere chiara. Noi viviamo in un mondo che tende ad annullarla, e di cui per esempio complottismo e fake news sono i figli scellerati. Ma qui ci stiamo allontanando dalle fiabe e dai bambini, anche se io ho notato che sembrano essere più gli adulti dei piccoli a non avere chiara la distinzione fra realtà e finzione, come dimostrano, per esempio, le alzate di scudi del politicamente corretto contro le fiabe o le crociate perbeniste contro i libri illustrati e non per ragazzi.

LC: Dentro le fiabe, infine, c’è spesso spazio non per il lieto fine ma per la speranza: cosa pensi di quest’altro grande assente?

GZ: Ogni fiaba prende avvio dall’infrazione a una regola, dalla rottura di un ordine prestabilito. È sempre da una situazione di caos che comincia a scorrere il pensiero, che si costituisce una trama. Il nostro cervello cerca ordine e ogni storia è una sorta di bava di lumaca che questo secerne per ricucire lo strappo. Una specie di processo di cicatrizzazione simbolica. È per questo che cominciano le storie. La loro trama è l’insieme delle situazioni che portano il protagonista o i protagonisti a superare le conseguenze di una alterazione rischiosa per ritrovare un nuovo ordine, ovvero un senso nuovo. A volte questo senso prevede il lieto fine, a volte no. Ma l’atto letterario è sempre un atto vitale, di profonda fiducia nella parola e cioè di quanto di meglio sia dato agli umani per stare al mondo con intelligenza, fiducia, speranza, giustizia. In quella meravigliosa raccolta di articoli che è Letture facoltative, nel breve saggio L’importanza di farsi spaventare, a proposito delle fiabe di Hans Christian Andersen Wislawa Szymborska scrive: «I bambini amano essere spaventati dalle favole. Hanno un naturale bisogno di essere spaventati dalle favole. Andersen atterriva i bambini, ma nessuno di loro, una volta diventato grande, gliene ha mai voluto.» E con questo io penso che l’argomento sia chiuso.

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