Quella sera Max si mise il costume da lupo e ne combinò di tutti i colori.
Ecco uno degli incipit più famosi del panorama dell’albo illustrato, la riga che, svettante su uno sfondo bianco, apre la narrazione di Nel Paese dei Mostri Selvaggi, di Maurice Sendak, uno dei libri per l’infanzia dal cammino più fortunato, la cui fama internazionale non è andata scemando negli anni.
L’avventura di Max è talmente celebre che non ha bisogno di presentazioni. La sua menzione subito accende nel ricordo suggestioni legate a birichinate che non comportano un pentimento, e che, seppure punite, anziché causare una mortificazione, aprono le porte di un viaggio fantastico, entro il quale compiere l’esperienza del contatto con la propria parte selvaggia e arrabbiata, alla quale dare pieno sfogo prima di poterla consapevolmente domare e, successivamente, abbandonare.
Sendak stesso nel suo incipit non approfondisce altro: la storia comincia nel momento in cui Max si mette il costume da lupo, continua, come sappiamo, nel Paese dei Mostri Selvaggi e si conclude di nuovo in ambito casalingo, nella cameretta del bambino, dove “la cena era ancora calda”.
Di letture ed interpretazioni dell’albo ne sono state fatte molteplici e non è questa la sede per addentrarsi nelle specificità di ciascuna. Interessante, come nota anche Ellen Handler Spitz nel suo saggio Libri con le figure, un viaggio tra parole e immagini, è proprio quel principio, il momento in cui il ribelle piccolo protagonista indossa un costume da lupo.
Perché proprio un costume da lupo?
Sottolinea la psicologa e docente universitaria americana:
Il costume da lupo possiede una quantità di appendici, una più esagerata dell’altra – orecchie aguzze, artigli, un’enorme coda cespugliosa – a ricordarci come nella nostra cultura il simbolo del lupo sia assai complesso e carico di molti temi, che evocano non solo le minacce di divorare ed essere divorati, ma anche la seduzione sessuale.
Anche Bruno Bettelheim, nel suo scritto Il mondo incantato, si sofferma in diversi passaggi sulla figura del lupo. Da principio durante l’analisi della fiaba de I tre porcellini, dichiara:
Il lupo è manifestatamente un animale malvagio, perché vuole distruggere. La cattiveria del lupo è qualcosa che il bambino piccolo riconosce nel proprio intimo: il suo desiderio di divorare, e la sua conseguenza: l’angoscia di poter subire anche lui una sorte del genere. Quindi il lupo è un’esteriorizzazione, una proiezione della cattiveria del bambino.
Successivamente nello stesso libro, Bettelheim, a proposito di Cappuccetto Rosso, continua ad osservare che la figura del lupo rappresenta tendenze asociali e sensuali presenti in ciascuno di noi, che la sua presenza nella fiaba è necessaria per simboleggiare l’ambivalenza del bambino di fronte a un dilemma: vivere secondo il principio di piacere (aggiungerei: istintuale) o secondo il principio di realtà, governato da regole e limiti.
Non a caso il lupo è una figura emblematica di fiabe e racconti per l’infanzia: cattivo indiscusso e imperituro, riesce a catalizzare su di sé emozioni di forte paura e, contemporaneamente, di fascinazione. Il bambino è attratto e spaventato da un animale che si fa simbolo di pulsioni interiori, con le quali fare i conti se si vuole imparare a contenerle, non negandole ma riconoscendole.
A partire dagli impulsi ambigui relativi a quella che viene chiamata la fase orale della prima infanzia – l’istinto di divorare e l’angoscia di essere divorati di cui parla Bettelheim – fino alla problematica di gestire i bisogni di socializzazione, controllo e accettazione dei limiti, contrapposti all’attrazione verso comportamenti impulsivi e selvatici.
Il bambino comprende emotivamente che per essere accettato, per stare nel mondo e ricevere gratificazione affettiva, ha bisogno di imparare il controllo, ma allo stesso tempo avverte nel suo intimo un fuoco di pulsioni che vanno dal principio di piacere fino all’aggressività: la sua dimensione cattiva, il territorio della belva che è in lui.
(Da notare, come affermano psicologi e pedagogisti, che l’aggressività del bambino può interpretarsi come una risposta ad un senso di frustrazione dovuto alla sua percepita piccolezza ed effettiva impotenza sul mondo reale. Spesso essa viene infatti rivolta, più o meno esplicitamente, verso l’adulto, che è colui che limita ed esercita il controllo.)
Sotto quest’ottica ecco che far indossare a Max il costume da lupo diviene una vera e forte dichiarazione d’intenti, subito messi in atto. Prima ancora di raggiungere l’isola delle mostruose creature il bambino ha già messo in campo la propria selvatichezza, ha rivendicato la sua emancipazione dalle regole, ha lasciato sfogo ad un’irruenza da predatore. E del suo essere già in parte belva fa piena affermazione, tanto che quando la madre, esasperata dalle tante marachelle, lo apostrofa “mostro selvaggio” egli senza indugio risponde: “E io ti sbrano”. Esattamente come farebbe il lupo di cui porta l’abito.
Max non svestirà il suo costume durante tutta l’avventura. Questo è un lasciapassare, un elemento a metà tra il reale, che il bambino sta per abbandonare, e il regno del fantastico, nel quale è in procinto di entrare. Quando nella sua stanza cresce una foresta e nel cielo notturno svetta una luna piena, il travestimento lupesco gli permette di ululare in direzione dell’astro, già integrato in quel contesto selvatico che va delineandosi.
Ancora in accordo con Ellen H. Spitz, si può notare che Sendak “contiene” il pathos psicologico ed emotivo del suo racconto grazie ad una molteplicità di elementi rassicuranti, che hanno, tre le altre, la funzione di non far percepire al piccolo lettore un senso eccessivo di abbandono e di sgomento. Ad esempio l’ambientazione dell’avventura, che è appunto quella della cameretta, il luogo più famigliare per un bambino. Ma anche le caratteristiche fisiche dei mostri selvaggi, che sono sì spaventosi, grossi e dotati di zanne, unghione, corna e pellicce, ma anche un poco buffi, bislacchi e divertenti. Allo stesso modo “il costume da lupo di Max appare sospettosamente simile ad una tutina da neonato, un pagliaccetto o un pigiamino. Questa ambivalenza serve a mitigare la sua presunta aggressività” e, ricordando che è un bimbo, a suggerire la natura conflittuale della sua “cattiveria”.
Solo nell’ultima illustrazione, e penultima tavola dell’albo, il cappuccio lupesco scivola dalla testolina di Max, forse spostato consapevolmente dalla sua mano che accarezza una fronte ora distesa su un accenno di sorriso.
Il bambino è tornato nella sua stanza, anzi è tornato a “quella sera”, la sera delle disubbidienze e della punizione. Ad aspettarlo il piatto ancora fumante della cena, segno di un amore materno che non lo ha abbandonato, forse lo ha accompagnato, di certo l’ha riaccolto.
Il costume può essere materialmente e simbolicamente svestito: Max ha riattraversato il confine verso la dimensione del reale dopo aver vissuto un’esperienza di profondo contatto con le emozioni. Ha ballato la ridda selvaggia, ha detto “no” ai mostri, imponendosi su essi, si è ricongiunto con la sua parte bisognosa e vulnerabile, ha ricercato, trovandolo, il conforto affettivo. Ora è meno lupo e più bambino, ma lo è avendo attraversato e scelto la sua direzione nelle terre selvagge.
Altri bambini che scelgono, che vivono in autonomia la loro avventura e che, nella conclusione, trovano una possibile chiave di salvezza nel legame d’amore, sono i due protagonisti de La maschera di Grégoire Solotareff.
La “maschera” del titolo è ancora quella da lupo, ma essa assume qui un significato più forte e radicale, anche perché più esplicito, di quella che veste Max nell’opera di Sendak.
Gli abiti che infatti indossano Lila e Ulisse non sono una riproduzione carnevalesca delle sembianze dell’animale bensì una vera pelliccia di lupo, per la prima, e reali orecchie di belva, per il secondo.
Accade che dopo essere stati inghiottiti tutti interi da un lupo nero e feroce, i due bambini, non ricevendo soccorso da nessuno, sono costretti a cavarsela da soli e a picchiare da dentro la pancia della bestia così forte da ucciderla e poter uscire sani e vittoriosi dalle sue viscere.
Tanto vincenti da decidere di ricavare dalle spoglie del lupo i due mascheramenti e, agghindati con orecchie e mantello, andare a zonzo per le strade di una città notturna a spaventare la gente.
Lila presto si stanca del gioco, decide di gettare via il mantello e tornare a casa. Per Ulisse, che continua la sua passeggiata ululando, facendo versi e cantando per tutta la notte, l’identificazione con il lupo è invece profonda e totale, come sottolineato anche dalla postura e dalle espressioni facciali assunte, che lo portano ad assomigliare davvero ad una belva.
Anche Ulisse-lupo, al pari di Max, balla la sua ridda selvaggia. Ma lo fa per le vie di una città deserta, nella quale è rimasto solo dopo aver indotto tutti gli abitanti a fuggire terrorizzati, rinchiudendosi dentro le case.
Ulisse fa davvero paura. Non si accontenta di restare a cavallo del confine problematico tra le sue pulsioni asociali e cattive e i suoi bisogni di integrazione e riconoscimento affettivo, ma sceglie di varcarlo. Nell’avventura che narra, Solotareff non inserisce gli elementi rassicuranti di cui fa uso Sendak: gli adulti, la casa – come luogo di protezione e accoglienza – che non abbandonano mai davvero Max, sono invece immediatamente estromessi dalle possibilità di conforto di Ulisse fin dalle prime pagine, da quando i bambini chiusi nella pancia del lupo chiamano in soccorso genitori che non arrivano e successivamente porte e finestre si sbarrano al passaggio dei due piccoli protagonisti.
Non credo che il lupo di Ulisse sia semplicemente una risposta all’abbandono, alla solitudine che Solotareff dipinge come condizione esistenziale. L’autore non ci parla di contingenze, non ci racconta una storia episodica, ma scende nei meandri di una visione complessa e rappresentativa dell’infanzia. Scrive Giordana Piccinini:
Tra i temi portanti che cominciano a emergere dall’albo, c’è quello della solitudine dell’infanzia e della necessità di far conto solo sulle proprie forze, perché il mondo dei grandi è sostanzialmente assente.
(Questa non è un’accusa verso adulti che non si curano dei bambini ma, più profondamente la dichiarazione di un’alterità insita nella stessa condizione infantile.)
Un’infanzia di solitudine e diversità è un territorio dove tocca cavarsela da sé ma anche un tempo-luogo dove si può essere liberi di essere sé. È una posizione, questa, che sprigiona forza, energia.
“Mi divertivo così tanto a spaventare gli altri”, confessa il bambino alla sorella sul termine del racconto, “che non avevo voglia di smettere”.
Ulisse prova quindi piacere nel mostrare la sua ferinità, nel mettere in fuga l’altro, l’adulto nella fattispecie, nel ricordare che esiste un lato dell’infanzia tribale, istintivo, terreno, sensuale (nel senso di prossimo ai sensi). La maschera da un lato, celando, permette di non censurarsi, dall’altro conferisce una seconda identità, che può essere vissuta come vera e rappresentativa al pari della prima. Nel dare una chance al desiderio di essere altro da sé essa porta in superficie aspetti del sé nascosti o negati.
Mi spingerei ad un parallelo con le pitture facciali alle quali i ragazzini de Il Signore delle mosche di William Golding ricorrono quando si costituiscono tribù, rinunciano alle regole del buon senso civile e compiono gli atti più efferati. In quel caso la cattiveria coincide con la crudeltà, il gruppo ha la funzione di spersonalizzare e di amplificare gli istinti, ma i segni che coprono il volto aiutano i bambini a mettere in atto azioni e comportamenti che l’io cosciente, consapevole e sovra strutturato non compierebbe.
Max, al termine della sua scorribanda fantastica, può contare sul calore della riaccoglienza famigliare: la sua punizione non è “per sempre”, è un gesto educativo o di esasperazione, ma certo non di disamore.
Quale conforto è possibile invece per Ulisse?
La chiave è ancora nella relazione affettiva, stavolta non con l’adulto di riferimento ma in una relazione tra pari. In questo caso con Lila, la sorella che lo attende a casa al sorgere del sole.
Ulisse è cosciente che la maschera, che cela la fragilità e permette alla selvatichezza di esprimersi, può proteggere perché in grado di spaventare altri lupi, figurati o meno, esterni o interni, che troveranno sul loro cammino.
(Altra rivelazione shock che Solotareff fa, tra le sue righe, all’infanzia. A quell’infanzia agli occhi della quale, per istinto di protezione, vorremmo edulcorare la realtà).
Il dialogo che chiude l’albo è, a mio parere, uno dei più belli ed intensi del panorama dei libri per bambini:
Il pericoloso potere oscuro della maschera è quindi quello di far diventare cattivo chi la indossa. E gli unici antidoti alla cattiveria, che possono domare il lupo interiore impedendogli di azzannare o sbranare, sono la vicinanza, l’amore e la relazione.
D’altra parte la dicotomia del bambino, che viaggia in bilico tra i suoi istinti aggressivi e distruttivi e la necessità di essere limitato e contenuto, di essere indirizzato verso il buon comportamento per ricevere gratificazione, può essere sanata dalla voce autentica di un “ti amo così come sei”.
Anche durante la crescita, superata la fase delicata della prima infanzia per affacciarsi in quella tormentata dell’adolescenza, le figure letterarie cattive, crudeli, selvagge come il lupo, posso continuare ad esercitare il loro fascino ambivalente. Svolgendo da un lato il loro buon compito di spaventare, compiere azioni aberranti e feroci – per rendere più adrenalinica la lettura -, dall’altro chiamando il lettore al rispecchiamento, soprattutto quando ad esse possono essere affidate paure, emozioni troppo negative per essere espresse, rabbie violente e dolori.
Nell’originale opera Il selvaggio – metà romanzo metà graphic novel – David Almond, con i testi, e Dave McKean, con le illustrazioni, narrano le intense vicende di un ragazzo chiamato a gestire in sé il trauma relativo alla morte del padre. Alla difficoltà di parlare con psicologi ed esperti – quell’obbligo a raccontarsi che nei più giovani facilmente secca le parole – viene in soccorso la fantasia: Blue scrive e disegna la storia di un suo coetaneo selvaggio, un essere dei boschi, una belva mezza umana che di un ragazzo ha le fattezze ma degli animali le consuetudini.
Il libro si articola in un’alternanza di due registri stilistici sfasati temporalmente. In quello solo testuale, che fa da corpo e ossatura alla storia, il protagonista, divenuto più grande, racconta l’avventura accadutagli tempo prima, durante il periodo in cui scrisse la storia del personaggio da lui inventato. L’altro, dove compaiono i disegni incisivi e mossi Di McKean, rappresenta le pagine del quaderno del ragazzo.
È lo stesso Blue a descrivere così la creatura da lui immaginata, nello stile sgrammaticato che contraddistingue le parti tratte dal suo taccuino:
Nel bosco di Burgess cera un ragazzo selvatico che non aveva una famillia e non aveva amici e non sapeva da dove veniva e non sapeva parlare (…) Viveva in una grotta sotto la chiesa dirocciata. Le sue armi erano vecchie forchette e i coltelli da cucina e un ascia che aveva fregato dai possedimenti di Franky Finning. Se per caso qualcuno lo vedeva lui ci dava la caccia e gli teneva un imboscata e gli uccideva e poi mangiava e giettava gli ossi infondo a un antico pozzo. Era selvaggio. Era da vero selvatico.
Blue non riesce ad esprimere i sentimenti angoscianti generati dalla morte improvvisa del padre: dolore e rabbia, sicuramente, ma anche l’urgenza di rendersi forte per poter difendere sé e la sorellina da eventuali minacce esterne. Non può più permettersi di soccombere alle violenze di Hopper, il bullo del paese, ma è necessario che egli acceleri il suo processo di crescita creando un alter ego in grado di portarne il peso.
La risorsa cui Blue si affida è la finzione letteraria che è tanto più libera quanto più è privata: al selvaggio, nel segreto dei suoi fogli, possono essere delegate azioni crudeli, cruente. È anche possibile renderlo un giustiziere in grado di risanare i torti senza portare il peso della colpa, esonerato dall’appartenenza ad un mondo selvatico, dove le regole del viver civile non vigono.
Come nell’albo di Solotareff anche qui la “maschera”, l’alter ego letterario nella fattispecie, fa “diventare cattivi”, nel senso che rivela emozioni e desideri duri e inconfessabili, ma allo stesso tempo difende e protegge. Anzi, può arrivare a spaventare e addirittura ferire i nemici, allontanandoli per sempre.
Il selvaggio non è propriamente un lupo ma in alcuni passaggi lo ricorda: è un predatore e si ciba di coloro che uccide, uomini o animali che siano. Ma il selvaggio è anche dionisiaco, quando si dà alla cavalcata sfrenata e sguaiata di un grasso maiale agitando la sua ascia alla luce della luna. Ci si ricongiunge quindi con la visione di un’infanzia sensuale, in contatto con la forza vitale della natura, dedita al principio di piacere, goduriosa, viva.
Almond sovente nelle sue storie muove la narrazione da un piano di realtà – una situazione realistica – ad un livello dell’”altrove”, dove il fantastico sposa il magico e il metafisico. La fusione tra i due piani – del reale e dell’immaginazione – ne Il Selvaggio crea un cortocircuito che caccia la creatura dei boschi fuori dalla pagina della sua invenzione, rende le sue azioni concrete e vere – in grado di lasciare traccia – e fa sì che essa incontri Blue, che l’uno si specchi nel sogno sognato (ed espresso) dell’altro.
Allora il selvaggio si sporse sulle fiamme e sollevò un bastone infuocato. Lo tenne in alto, puntò il muro della caverna e per poco non cascai a terra quando vidi cosa aveva voluto mostrarmi portandomi lì. C’ero io, sul muro della caverna. Ero disegnato con un pezzo di carbone e colorato con tinture di foglie e terra e bacche.
Ma la rivelazione per Blue è scoprire che i segni tracciati su pietra che lo riguardano affondano fin nella sua infanzia: da sempre lui e il selvaggio sono due parti della stessa medaglia. È l’ora di riconoscersi, di dipingersi la faccia col fango, di pestare, grugnire, di “capire come ci si sente ad essere davvero selvatici”.
Ancora una danza, ancora una ridda, oltre la quale c’è una salvezza possibile. Come il selvaggio permette a Blue di esternare istinti e sentimenti repressi perché capaci di turbare, così il secondo instilla nel primo il seme della tenerezza e dell’amore, sempre unici antidoti alla brutalità del dolore, all’impeto della cattiveria.
È interessante notare che, al di là dei significati psicologici, Almond propone nel suo libro un uso potente e significativo della scrittura: la creazione di un altro sé, immateriale ma non per questo meno vero. Un sé su misura di un momento di vita, dalla taglia abbastanza forte da reggere il peso di esigenze emotive difficili. Un abito, una maschera, un costume per lati tanto nascosti quanto bisognosi.
Per Blue vestire quest’abito significa trovare una via, affrontare la crescita.
Vitale è così l’importanza stessa della finzione letteraria, scrigno di mille e più possibilità di conoscere, sperimentare ed indagarsi. E come questo potere salvifico vale per il giovane protagonista de Il Selvaggio, così può valere per ogni lettore, una volta trovato il proprio libro, quello giusto da leggere, da indossare, da abitare.