Ogni volta che ho pensato a come iniziare questo articolo, davanti ai miei occhi appariva puntualmente un fotogramma di un celebre film realizzato da Fellini nel 1963, Otto e 1/2. La scena è quella in cui una donna trascrive su una lavagna i pensieri di Guido il protagonista, carpiti da un mago che ha la capacità di leggere nella mente delle persone.
Sulla lavagna nera a caratteri cubitali compare la scritta ASA NISI MASA, un enigma che ha il potere di far riaffiorare nella mente di Guido una serie di flashback relativi alla sua infanzia.
Ogni particolare della scena contribuisce a ricreare l’ambiente del focolare domestico, dal rassicurante dialetto romagnolo ai bagni nelle tinozze, dalle ninne nanna a quella parola che i bambini con fare quasi propiziatorio ripetono sibilando: “ASA NISI MASA”.
I critici e gli esperti hanno condotto studi appassionati sul significato di questa parola fino a elaborare diverse tesi e interpretazioni; la più accreditata è quella in cui si ritiene che la parola altro non fosse che la traduzione del termine Anima tradotta nell’alfabeto serpentino A(SA) NI (SI) MA (SA).
Andando oltre l’indagine lessicale, mi interessa sottolineare l’aspetto ludico, il gioco con le parole che è alla base dell’apprendimento della lingua, specie nella prima fase, quando ogni suono e ritmo incanta i bambini ancor prima del significato stesso dei vocaboli, e li rende inclini a trasformare o inventare nuove parole.
Spiega Gianni Rodari nell’imprescindibile Grammatica della Fantasia:
[pullquote align=center]Un modo di rendere produttive, in senso fantastico, le parole, è quello di deformarle. Lo fanno i bambini, per gioco, un gioco che ha un contenuto molto serio, perché li aiuta a esplorare le possibilità delle parole, a dominarle, forzandole a declinazioni inedite; stimola la libertà di “parlanti”, con diritto alla loro personale “parola” (grazie signor Saussure); incoraggia in loro l’anticonformismo.
(Gianni Rodari, Grammatica della Fantasia, Einaudi Ragazzi, Torino, 2013, pag. 47).
[/pullquote]“ASA NISA MASA” al pari di “Supercalifragilisticexpialidocious” (parola inventata da Richard M. e Robert B. Sherman che dà il titolo alla famosa canzone del film Mary Poppins) e molti altri neologismi senza un apparente significato, sono capaci di aprire le porte magiche del mondo infantile, con immediatezza ed efficacia. Quel mondo in cui le parole, prima di avere un significato, custodiscono la magia di un suono che coccola e diverte e stabiliscono un legame tra chi nutre e chi viene nutrito. Tra chi viene al mondo e chi lo pone in relazione con gli altri e con una realtà dalle infinite possibilità.
Già da molto tempo si sottolineano i benefici dell lettura ad alta voce, della ricerca di quelle parole adatte da sussurrare ai bambini fin da quando sono ancora nel grembo materno.
[pullquote align=center]Parole di una mammalingua che tutti, da adulti, dovremmo imparare da capo, per far bella la voce e rasserenare i pensieri. Parole che stanno nella memoria del cuore e sanno di gioco, di tenerezza e di solletico. Parole melodiose, che si fondono nell’armonia di dolci ninnenanne. Parole che, quando il bambino avrà orecchie, occhi, naso, bocca e pelle pronti ad assorbirle, troveranno aiuto e sostegno nei gesti, nei sorrisi, negli sguardi. Parole magiche da dire nel momento del bisogno per schiacciare un mal di pancia calabrone o altri malaugurati accidenti. Parole burlone che si aggrovigliano in insensate acrobazie linguistiche e fanno solletico alle orecchie. Parole in dialetto, robuste, concrete e colorate tenute per troppo tempo, forse, fuori dall’uscio di casa. Parole di cantilene, incerte tra senso e non senso, che appena finiscono ricominciano da capo. Parole inventate che si impossessano di un significato rubandolo al suono…
(Rita Valentino Merletti, Leggimi forte. Accompagnare i bambini nel grande universo della lettura, Salani, Milano, 2011).
[/pullquote]
Tararì Tararera, Emanuela Bussolati, Carthusia, 201
Esemplare in questo senso e degna di nota, l’invenzione di una lingua Piripù ideata da Emanuela Bussolati, una lingua speciale costituita da una sequenza di suoni che ben si adattano a “fare le voci”, a leggere giocando con i bambini.
In lingua Piripù finora sono stati scritti tre albi illustrati: Tararì Tararera, Rulba rulba e Badabùm, tutti editi da Carthusia, il primo dei quali nel 2010 si è aggiudicato il Premio Andersen come miglior libro per la fascia compresa tra 0-6 anni: “Per essere quanto mai coinvolgente e godibile, di assoluta originalità. Per essere un libro semplice e lineare frutto di un attento e colto progetto linguistico e grafico. Per regalarci un implicito invito a far sì che piccoli lettori e adulti possano incontrarsi e stare felicemente insieme”.

Jabberwocky di Lewis Carroll, illustrazioni di Raphaël Urwiller, traduzione di Masolino D’Amico, Orecchio Acerbo, 2012
Era brillosto, e i topi agìluti,
facean girelli nella civa;
tutti i paprussi erano mèlacri,
ed il trugòn strinava”.
(da Jabberwocky di Lewis Carroll, illustrazioni di Raphaël Urwiller, traduzione di Masolino D’Amico, Orecchio Acerbo, 2012).
[/pullquote]Recita Lewis Carroll nel Jabberwocky, una poesia nonsense scritta e pubblicata nel 1871 nel romanzo Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, all’interno di un dialogo tra Alice e Humpty Dumpty.
La maggior parte delle parole presenti nel poemetto sono frutto dell’ inventiva di Carroll e molte rientrano nella categoria delle “parole macedonia”, portmanteau-word in lingua inglese, dal francese porte-manteau, che si riferisce a una grande valigia con due scomparti. In tedesco Kofferwort, parola-valigia, appunto.
Le “parole macedonia” sono neologismi ottenuti saldando la testa di una prima parola con la coda di una seconda, ed è proprio Humpty Dumpty, il tombolotto a forma d’uovo che, spiegando ad Alice le strane parole contenute nel Jabberwocky, ne esplicita il meccanismo:
[pullquote align=center]Be’, “agiluto” vuol dire “agile” e “lutulento”, cioè fangoso, vischioso. È un po’ come valigia, capisci … ci sono due significati in una parola sola.
(Lewis Carroll, Attraverso lo specchio, in Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie. Attraverso lo specchio, traduzione di Masolino d’Amico, Mondadori, Milano, 1980, pag. 204).
[/pullquote]Ad esplicazione di quanto detto v’invito a leggere l’albo illustrato di recente pubblicazione: In ogni Pinocchio, testi di Giuseppe Caliceti, illustrazioni di Gaia Stella, Topipittori.
Nell’albo il bambino viene invitato a prestare attenzione alle parole che al loro interno ne nascondono altre, conducendolo in un gioco che gli mostrerà il modo in cui nascono le parole.

In ogni Pinocchio, testi di Giuseppe Caliceti, illustrazioni di Gaia Stella, Topipittori
Carroll non si limitò a utilizzare queste parole solo nel poemetto, ma ne fece largo uso anche in La caccia allo Snark. Ne spiegò il meccanismo in un capitolo di Attraverso lo specchio, come ho avuto modo di notare sopra; tuttavia Carroll in alcune sue lettere e prefazioni ne diede versioni leggermente differenti, e cercò di spiegare l’origine di quante più parole possibili.
Ma più che raccontarvi quale significato si celi sotto il linguaggio d’invenzione del poema preferisco raccontarvi la reazione di Pietro, un papà lettore, studioso di letteratura giovanile (Piero Guglielmino), davanti alla lettura di questi versi, e quanto mi scrisse nell’ambito di un incontro di lettura su Alice nel paese delle Meraviglie.
[pullquote align=center]“Ma che stupidaggine è questa? Non ha alcun senso!”
Ecco, molti genitori avrebbero questa reazione, leggendo di “topi agìluti” e di “paprussi mélacri”.
Io no! A me vien da ridere, morire dal ridere! E proprio non ce la faccio a leggerlo ad alta voce senza impacci. Troppo assurdo, troppo divertente!
E se fosse, invece, un GIOCO MOLTO SERIO?
Un gioco molto impegnativo e importante per i bambini (come tutti i giochi): “insegna” loro (implicitamente!) la potenza creatrice della parola e la libertà di non subire le parole.
E allora, se leggo a mio figlio, provo a essere serio e a scandire ogni parola, come se il “TRUGON” fosse vero. O meglio, perché il “TRUGON” è VERO!
Queste sono parole-oggetto, sono suoni concreti che piombano addosso ai bambini. E il bello è che non scivolano via ma rimangono dentro, in un vocabolario personale pieno di parole in libertà, un prezioso strumento per sviluppare il linguaggio e ri-nominare un mondo a propria immagine e “PAZZIA”.
“E se fosse un gioco molto serio?”
Quello che vorrei sottolineare è che sia le singole parole inventate che gli interi linguaggi creati ex novo, rispondono a un’esigenza ludica, e che se è vero che la letteratura per l’infanzia, al pari di quella per adulti, debba prescindere dal mero ruolo educativo e assolvere a una funzione edonica, questo aspetto non può essere né sottovalutato né tralasciato, sia da chi scrive libri per bambini sia da chi li promuove.
I neologismi, così come i giochi di parole, le allitterazioni, i nonsense, svolgono una duplice funzione: da una parte stupire il lettore, attirando la sua attenzione, dall’altra alimentare l’immaginazione e stimolare la creatività.
Ma non solo, quelle parole inventate hanno anche il ruolo di stabilire una sorta di complicità immediata tra chi scrive e chi legge, in un modo intimo e giocoso, scherzoso e ironico, proprio come una volta quelle stesse parole lo avevano legato a chi lo cullava tra le sue braccia con l’unico scopo di farlo rilassare o divertire.
Si potrebbe obiettare che nei libri per i primi lettori si debba fare attenzione all’uso di parole difficili, figuriamoci di parole inventate che non possono far altro che confondere ancora di più un bambino alle prime prese con la lettura.
Molte collane di libri per primi lettori sono costruite proprio osservando questo principio, che pone l’attenzione più sull’imparare a leggere che sul piacere di leggere.
È facile che accada che, mentre il bambino è impegnato a impossessarsi delle abilità tecniche (e al contempo il genitore o l’insegnante smette di leggere ad alta voce), le difficoltà incontrate, al pari passo della lettura di libri banali, possano causare la perdita del piacere di leggere.
Chiediamoci cosa ne sarà di quel bambino che un giorno ascoltò la storia di un gatto giallo inciampato in un sasso, morso da una Quaglia Pennuta da un Pinzi e da un Punzotto, che decise di andare in un posto dove la sfortuna non esiste, il Paese di Solla Sulla.
O di quella bambina che dopo aver scoperto “una parola sensazionale” come lo Spunk ne andò a cercare il significato in tutti negozi della città, per poi scoprire che altro non era che “un piccolo coleottero … con le ali verdi che luccicavano come fossero di metallo” che era sempre stato “beatamente nel bel mezzo di Villa Villacolle”.
Cosa ne sarà di quei bambini affascinati dallo scoprire che la strega Etrusca Cruscòn per riposare bene aveva bisogno di materassi riempiti di un’imbottitura di “spiumaccione”, uno strano gallinaceo con due “belle e lunghe ali” incapace di sollevarsi in volo, che si trova solo nel giardino del re?
(I libri citati nell’ordine: Dr. Seuss, Il Paese di Solla Sulla, traduzione di Anna Sarfatti, Giunti Junior, 2005; Astrid Lindgren, Pippi Calzelunghe, traduzione di Donatella Zilliotto, illustrazioni di Ingrid Vang Nyman, 2013; Bianca Pitzorno, A cavallo della scopa, illustrazioni di Anna Curti, Mondadori, 1999).
Se si può fare molto per promuovere la lettura, appassionare e contagiare i bambini è anche vero che se la loro esperienza di lettura con un libro non sarà positiva, qualunque sforzo fatto in questa direzione sarà stato vano.
Al contrario, anche in assenza di un’adeguata promozione, un libro può catturare il lettore e promuovere la lettura, attraverso le storie che racconta e lo stile narrativo, e soprattutto presentandosi come qualcosa di originale, appetibile, stuzzicante. Affinché un libro assolva a questo compito non è detto che debba essere facile, anzi è vero tutto il contrario: potrebbero essere proprio la sua complessità e difficoltà a renderlo degno di atti di volontà e sforzi cognitivi.
Sono necessarie storie che rispondano all’esigenza dei bambini d’inventare qualcosa che sia proprio e solo proprio, manifestazione di una personale indipendenza, creatività, scelta. Una lingua unica, comprensibile solo ad orecchie bambine, che metta distanza tra il mondo adulto e quello della fanciullezza e che invece sia ponte sicuro di comunicazione tra la realtà e l’immaginazione.
Esemplificativo a tale proposito questo dialogo contenuto in Sorellina tutta mia di Astrid Lindgren:
[pullquote align=center]Mari-lù ed io abbiamo inventato una lingua segreta, che sappiamo solo noi. Il cespuglio di rose non si chiama così nella nostra lingua, si chiama Salikon. Ieri mattina ero seduta vicino a Salikon, quando ho sentito la lingua di Mari-lù che mi chiamava: “Vianique!” “Vieni qua” si dice così nella nostra lingua.
(Astrid Lindgren, Sorellina tuttamia, illustrazioni di Hans Harold, traduzione di Roberta Colonna Dahlman, I classici moderni per bambini, Il gioco di leggere, 2010).
[/pullquote]Anche nel libro La lingua speciale di Uri, David Grossman ci offre una bella storia dove quest’inclinazione a inventare e interpretare una lingua è ben assecondata.
Uri, un bambino di un anno e mezzo, ha appena cominciato a parlare, e usa le vocali e una sola consonante: la T. Per fortuna che c’è Yonatan, il fratello maggiore, che di anni ne ha 5, e comprende facilmente la strana lingua di Uri, offrendosi come prezioso e divertito interprete.
Un linguaggio segreto che solo i bambini possono comprendere, una lingua che gli dà la possibilità di vivere in un mondo altro da quello degli adulti, non solo perché questi non riescono a carpirne i significati ma, cosa ancor più divertente, è che ne capiscono fischi per fiaschi.

David Grossmann, La lingua speciale di Uri, traduzione di Bianca Pitzorno, illustrazioni di Manuela Santini, Mondadori, Milano, 2011
Penso alle allusioni, alle parodie, ai giochi di parole, ai neologismi presenti nei libri della saga di Harry Potter, a quella ricchezza narrativa e linguistica che non mi sembra abbia scoraggiato nemmeno i lettori più riluttanti, ma anzi ha creato una vera e propria generazione di appassionati che ancora oggi è quella che assicura gran parte del fatturato del mercato editoriale rivolto ai ragazzi. Una delle caratteristiche che rendono coinvolgente un libro è la presenza di neologismi, parole che molti autori utilizzano nelle opere per stupire, aggiungere colore e un elemento sovversivo.
Se dico Babbani, (Muggle nella versione inglese; muggle scritto in corsivo nella traduzione spagnola; moldus in francese, dai vocaboli “mou” e “mol”, che si richiamano a un’immagine di fiacchezza e debolezza; Muggel in tedesco) neologismo inventato da J. K. Rowling in Harry Potter, ormai nessuno strabuzzerà gli occhi per la novità e l’originalità, tanto più che lo si può trovare perfino nell’Oxford English Dictionary.
È ormai assodato che chiunque sia privo di poteri magici sia un Babbano. Pensate invece alla prima volta che un lettore si sia trovato di fronte a quel nuovo termine.
Immaginate la sua reazione: non può non aver provato un piacere sottile, sia per la sorpresa sia per la genialità dell’invenzione.
Babbano, che richiama babbeo, è la traduzione di un neologismo ironico e sprezzante che rimanda all’inglese mug “brutta faccia, grugno”, e anche nella versione italiana si riferisce alla goffaggine e all’inettitudine.
Rendere comprensibile ai propri connazionali vocaboli difficilmente traducibili è un arduo compito: da una parte, infatti, bisogna restare il più possibile fedeli al testo originale, dall’altra il traduttore si trova a compiere un vero e proprio atto creativo, non molto dissimile dal processo bambino, arricchito però di competenze linguistiche e filologiche che rendano le “parole nuove” perfettamente calzanti a cultura, lingua e realtà di destinazione.
Non accade la stessa cosa con un altro neologismo della Rowling che non è finito nel dizionario, che è Quidditch: uno sport giocato a cavallo di manici di scopa dalle regole abbastanza complesse.
Se nelle diverse traduzioni i nomi delle palle usate e dei ruoli di gioco cambiano di paese in paese, la parola Quidditch resta ovunque. Il Quidditch è un gioco magico che prevede l’uso di scope, e di varie palle. Ha caratteri in comune con la pallacanestro, calcio e polo.
Non tutte le parole inventate dalla Rowling, però, sono dei veri e propri neologismi come per esempio Squib, che sta ad indicare una persona figlia di un mago e una strega che non ha ereditato i poteri magici.
Gli Squib sono di solito malvisti dai veri maghi e si trovano in condizioni svantaggiate nell’ambito della società, proprio come lo squib, un fuoco di artificio che non esplode.
Molti dei neologismi creati dalla Rowling sono parole portmanteau che forniscono informazioni sui caratteri e sulle parole.
Animagus per esempio combina le parole “animale” e “mago” per creare una parola per definire streghe e maghi che possano trasformarsi in animali. Inoltre moltissime parole fondono insieme parti di termini di lingue come il latino e il francese, ed è divertente cercarne il significato nascosto.
Si pensi al nome del principale avversario di Harry Potter, Voldemort, derivato dal francese Vol de mort, che significa “volo di morte”, indicativo della volontà di immortalità e nel desiderio di uccidere gli altri (Ilaria Katerinov, Lucchetti Babbani e Medaglioni Magici. Harry Potter in italiano: le sfide di una traduzione, Camelozampa, 2012).
Ma se la Rowling introduce nei suoi libri una miriade di neologismi dando un gran da fare ai traduttori di tutto il mondo, in realtà non fa altro che inserirsi in una lunga e consolidata tradizione.
Dalle opere di Rabelais a Swift, sino a quelle di Joyce e Borges, l’invenzione di idiomi è una tecnica plurilinguistica, che arricchisce il testo e può assumere anche una valenza metalinguistica, come riflessione sui limiti del linguaggio umano. Dalla presenza di espressioni incomprensibili, come il dialetto pseudo bergamasco dei carbonai nel Barone rampante di Italo Calvino, si arriva a vere e proprie lingue inventate al fine della narrazione, come è il caso delle lingue parlate da comunità immaginarie, come quelle degli elfi e di altre creature ne Il Signore degli Anelli di Tolkien.
Per avere un’idea più ampia delle lingue immaginarie vi consiglio la consultazione del Dizionario delle lingue immaginarie, di Paolo Albani e Berlenghiero Buonarroti, Zanichelli, Bologna, 2011. Una guida documentata che stuzzica la curiosità e la fantasia e alla quale gli autori consigliano di avvicinarsi con “spiritello ludico”, da leggere come un romanzo incompiuto.
Limitandoci alle invenzioni linguistiche che hanno il fine di divertire e sollecitare la fantasia dei bambini, esemplare è la creatività lessicale di Roald Dahl, che fa un gran uso di neologismi all’interno delle sue storie, nei nomi dei suoi personaggi, delle creature immaginarie, delle ricette, i cibi e le bevande e soprattutto e per aver creato il linguaggio usato ne Il GGG.
Questo romanzo contiene di gran lunga il maggior numero di neologismi di qualsiasi altro libro di Dahl. Sembra infatti che le storie fantastiche offrano maggiori possibilità rispetto a quelle realistiche: non è strano che il GGG, che abita nel paese dei giganti, parli in modo sgrammaticato e usi parole bizzarre come popolli, smaccheramelloso, fanfaronato, introttolando, miravibondo, fantelastico, esiliante, babberottola.
I neologismi di Dahl possono suddividersi in tre grandi categorie (parole reali ma di uso non comune o raro, parole reali ma usate con un significato diverso, parole inesistenti) e, al contrario di quelli inventati da Carroll, non hanno bisogno di molte spiegazioni, quindi è forse più per un piacere estetico che sta per essere pubblicato il volume Oxford Roald Dahl Dictionary (Oxford University Press), curato dalla linguista Susan Rennie.
Una parola inventata, allo stesso modo di un vocabolo nuovo può essere resa comprensibile al lettore se viene usata con cura e attenzione, riducendo lo sforzo cognitivo necessario a carpirne il significato.
Dahl ad esempio a volte fornisce la spiegazione della parola all’interno della narrazione, a volte usa l’espediente della ripetizione o dell’accoppiamento con altre parole.
Prendiamo ad esempio la parola frobscottle, “sciroppio” nella traduzione italiana di Donatella Ziliotto: in poche righe non solo viene spiegato il significato ma il termine viene ripetuto per ben quattro volte, così che prima che la pagina sia terminata il lettore sappia già pronunciarla e darle un significato.
[pullquote align=center]
Roald Dahl, The BFG, illustrated by Quentin Blake
“Frobscottle,” annunced the BFG. “All giants is drinking frobscottle”.
“Is it as nasty as your snozzcumbers?” Sophie asked.
“Nasty!” cried the BFG. “Never is it nasty!” Frobscottle is a sweet and jumbly! He got up from his chair and went to a second huge cupboard. He opened it and took out a glass bottle that must have been six feet tall. The liquid inside it was pale green, and the bottle was half full.
“Here is frobscottle!” he cried, holding the bottle up proud and high, as though it contained some rare wine.
“Deloumptious fizzy frobscottle!” he shouted. He gave it a shake and the green stuff began to fizz like mad.
(Roald Dahl, The BFG, illustrated by Quentin Blake, Puffin Books, Penguin, 2016, pag. 56).
[/pullquote] [pullquote align=center]“Sciroppio” disse il GGG. “Tutti i giganti beve sciroppio”. “È ripugnante come il cetrionzolo?” chiese inquieta Sofia. “Ripugnante?” s’indignò il GGG. “Lo sciroppio ripugnante? Lo sciroppio è dolce e squizzito!” Si alzò dalla sedia e andò verso una seconda dispensa, enorme quanto la prima. L’aperse e ne tolse una bottiglia di vetro di quasi due metri, semipiena di un liquido verdognolo.
“Ecco lo sciroppio!” esclamò il GGG brandendo la bottiglia fieramente, come se contenesse vino pregiato. “Lo squizzito sciroppio scoppiettante!” Scosse la bottiglia e il liquido verde cominciò a frizzare da matti.
(Roald Dahl, Il GGG, illustrato da Quentin Blake, traduzione di Donatella Ziliotto, Gl’Istrici, Salani)
[/pullquote]Altre volte il significato di un termine è chiaro perché è spiegato direttamente dall’azione. Sofia non ha bisogno di nessuna spiegazione riguardo la parola whizzpopper (“petocchio” in italiano) in quanto vede subito l’effetto che lo sciroppio fa!
[pullquote align=center]“A whizzpopper!” cried the BFG, beaming at her. “Us giants is making whizzpoppers all the time! Whizzpopping is a sign of happiness. It is music in our ears! You surely is not telling me that a little whizzpopping is forbidden among humans beans?”
(op. cit., pag. 59)
[/pullquote] [pullquote align=center]“Con un petocchio!” Esclamò il GGG raggiante. “Noi giganti fa petocchi in continuazione! Un petocchio è un segno di gioia. È una musica per l’orecchio! È un marcio nunziale! Tu non mi puoi dire che un piccolo petocchio ogni tanto è proibito tra i popoli!”
(op.cit.)
[/pullquote]Un neologismo che diverte e che nello stesso tempo rompe un tabù parlando inventando una parola nuova.
Se poi ci concentriamo sulla musicalità di certi vocaboli più che sul significato colpisce l’effetto a livello emozionale, ben esplicato nel seguente brano presente nel GGG:
[pullquote align=center]“I popolli della terra ha la loro musica, chiaro o scuro?”
“Chiaro” disse Sofia. “Musica di tutti i tipi”.
“E qualche volta i popoli della terra va in estasi quando ascolta una musica sublime: come un fremito che scende per la colonna vertebrale. Chiaro o scuro?”
“Chiaro”.
“Dunque, la musica dice loro qualche cosa, manda un messaggio. Io non credo che i popoli della terra sa che tipo di massaggio è, ma gli piace lo stesso”.
“Penso di sì”.
“Beh, grazie alle mie orecchie mirabolanti, io non solo capace di sentire la musica dei sogni, ma anche di capirla”.
“Capirla come?”
“Io la legge, lei mi parla. È come un linguaccia”.
“Mi risulta un po’ difficile crederlo”.
“Io è sicuro che ti è anche difficile credere agli alienati, e che loro ci viene a visitare dalle altre stelle”.
“Certo che non ci credo”. Disse Sofia.
Il GGG la fissò gravemente con i suoi occhi immensi.
“Spero che tu mi perdonerà se io ti dice che i popoli della terra crede di essere molto intelligenti, ma non lo è. Loro è tutti dei sadipoco o dei sadiniente”.
“Sarebbe?”
“Il problema con i popolani è che loro rifiuta di credere alle cose finché non ci sbatte contro il muso. Certo che gli alienati esiste, io li incontra spessissimo e ci si scambia quattro chiacchere”.
(op. cit.)
[/pullquote]Affermazione che trova riscontro e validità se v’invitassi a pronunciare ad alta voce la parola Stralisco, vocabolo inventato da Roberto Piumini, che dà il titolo a uno dei suoi libri più belli, e che nasce in seno ad un gioco tra il pittore turco Sakumat e Madurer, un bambino gravemente malato per il quale il pittore era stato incaricato di abbellire le pareti bianche delle sue stanze, dove era costretto a vivere segregato.
[pullquote align=center]“Non è grano? Però sembra grano: un grano sottile…
“Sì, è simile al grano, ma sono spighe di stralisco.
“Stralisco? È una pianta che non conosco,” disse Sakumat, avvicinando con curiosità la faccia a una delle spighe dipinte, per studiarla meglio.
“Nessuno lo conosce,” disse Madurer, “è una specie di pianta luminosa.
“Luminosa?
“Sì, splende nelle notti serene. È una specie di pianta-lucciola, capisci? Noi adesso non la vediamo splendere, perché è giorno. Ma di notte lo stralisco illumina il prato.
(Roberto Piumini, Lo Stralisco, illustrazioni di Cecco Mariniello, Einaudi Ragazzi, Torino,1993, p. 74).
[/pullquote]
Andrew Clements, Drilla, illustrazioni di Brian Sielznick, Bur ragazzi, Milano 2016
Non solo è auspicabile spingere i bambini a allargare il proprio vocabolario affinché espandano i confini del proprio mondo, dovremmo mettere in conto che nello sperimentare il linguaggio venga automaticamente stimolata la creatività. Come accade al giovane studente Nick Allen in Drilla, che nell’imparare a sfruttare il vocabolario, come strumento indispensabile per l’arricchimento linguistico, scopre che dalla ricchezza delle parole si alimenta la fantasia. E così sarà più facile comprendere la noia davanti alla banalità di certi libri per primi lettori.
E non dovrà stupirci il piacere di Mina, la protagonista dell’omonimo romanzo di Almond, che nella sua fase di apprendimento si ferma spesso a giocare con le parole, per gustare, a dividerle in sillabe, a scriverle in stampatello maiuscolo, per assaporarle sia visivamente che verbalmente, come per esempio accade con “paradosso”.

David Almond, La storia di Mina, Salani, 2011, Milano
Una parola non inventata, ma nuova per una bambina, una parola difficile ma non tipica, così bella da far esclamare ad Almond attraverso la bocca di Mina:
[pullquote align=center]Insomma, cercherò di fare in modo che le mie parole scappino dalle gabbie della tristezza e le farò cantare di gioia.
[/pullquote]Una parola così bella che ci invita a guardarla, ascoltarla, a leggerla a alta voce provando quel gusto estetico delle parole al di là del significato.
Una parola nuova che al pari delle parole inventate apre le porte del mondo della meraviglia e delle infinite possibilità di creare e ricreare.
Per concludere, un’osservazione che ci conduce a considerare la pluralità e unicità di altri linguaggi che possono coesistere con quelli ritenuti “convenzionali”: a proposito de Il GGG ho taciuto il fatto che l’ispirazione per il linguaggio strambo del Grande Gigante Gentile fosse giunta a Roald Dahl da una tragedia che aveva colpito la sua famiglia: Pat (Patricia Neal), la sua prima moglie, nel 1965 fu colpita da un ictus che le provocò danni al lobo parietale del cervello, luogo deputato, tra le altre funzioni, a interpretare il linguaggio.
In seguito a questo avvenimento, capitava alla convalescente di pronunciare parole senza senso come “porteedo” o “muggled” invece di “confused”, vocaboli che Dahl inserì nel GGG.
Parole di chi sta reimparando a parlare, ma anche di chi potrebbe parlare diversamente, come in Il vicario, cari voi, penultimo libro di Roald Dahl, dove un parroco affetto da una particolare forma di dislessia, ribalta o anagramma le parole con effetti irresistibilmente divertenti. Nella postfazione del libro, le traduttrici spiegano le difficoltà incontrate nel tradurre dall’inglese i bifronti di cui il testo in lingua originale è pieno, tanto da costringerle a una piccola licenza traduttiva che ha reso duplice la dislessia del Reverendo, aggiungendo a quella retro-attiva (bifronti) quella mescolante (anagrammi).
Anche nel libro La ragazza Chissachì di Sarah Weeks, la difficoltà nell’esprimersi nel linguaggio consueto, comporta l’invenzione di parole inesistenti ma così significative da diventare il centro propulsore della narrazione.
Ne La vera storia del mostro Billy Dean, libro rivolto a un pubblico di giovani lettori e adulti, David Almond, sperimenta una scrittura nuova, che prende le mosse dalla lingua orale, creando un linguaggio sgrammaticato basato sulla fonetica.
Billy Dean, il protagonista, un bambino nato da una relazione proibita, protetto e nascosto agli occhi del mondo in una camera murata, ha una storia da raccontare e per farlo usa la sola lingua che conosce: quella che ha origine dai suoni, quella ascoltata dal padre e della madre. Quella che da autodidatta imparerà da solo a leggere e scrivere, attraverso gli albi illustrati e la Bibbia.
[pullquote align=center]Dicono che imparerò a scrivere cuesta storia viavìa che la scrivo. Una parola dopo laltra e unaltra ancora. Fà chessi muova la matita, dicono. Fà chessavanzi come passi nella polvere e chessi lasci dietro le sue tracce. Fà chessi lasci dietro i segni così come uccelli e bestie lasciano nel fango le loro impronte misteriose. Devi solo riempire le pagine. Una parola un segno una parola un segno.
[/pullquote]E mentre lui ci racconta la sua storia, vergando sulla carta parole che si trasformano in frasi, capitoli che diventano un libro, noi impariamo a decifrare quel nuovo linguaggio o se volete ad ascoltarne il suono, proprio come lo stesso Billy Dean ci suggerisce all’inizio del libro:
[pullquote align=center]Provate a decifrare le parole. O ascoltate il loro suono. O fate cuelche vi occorre per lasciarle entrare in voi. Io sono Billy Dean. Cuestè la verità. Cuestè la mia storia.
(David Almond, La vera storia del mostro Billy Dean, traduzione di Guido Calzi, Salani, Milano, 2011)
[/pullquote]