Dopo qualche anno di esperienza come lettori, che si sia adulti, ragazzi o bambini, diventa evidente che uno dei piaceri della lettura è dato dal ritrovamento di situazioni tipiche della finzione letteraria all’interno di narrazioni sempre nuove. Tali ricorrenze, che dal mito sono approdate ai racconti fiabeschi fino al romanzo moderno e di genere, rappresentano un orizzonte di aspettative soddisfatte, che fanno sentire il lettore confortevolmente accolto all’interno di una storia.
Uno dei meccanismi narrativi più ricorrenti e funzionali nel generare sorpresa e soddisfazione, già anticamente codificato, è quello del riconoscimento, ossia “il volgere dall’ignoranza alla conoscenza [di un’identità, di una parentela, n.d.a], all’amicizia o all’inimicizia”. Già secondo Aristotele nella sua Poetica il riconoscimento, o agnizione, rappresenta uno dei fondamenti del racconto, insieme al rovesciamento e all’evento traumatico.
La teatrografia classica e moderna e la letteratura romanzesca sono ricche di momenti di agnizioni in molteplici varianti. Circoscrivendo il riconoscimento all’ambito familiare, senza andare a scomodare il proverbiale Edipo e il suo “complicato” rapporto coi genitori, i lettori adulti possono trovare nella propria memoria esempi frequenti di parenti creduti morti che tornano per vendicarsi (il fratello Oreste nell’Elettra di Sofocle e Euripide; il capofamiglia e re Ulisse nell’Odissea), di fratelli identici separati alla nascita (i Menecmi di Plauto e successive varianti; la Maschera di Ferro del capitolo finale del ciclo de I Tre moschettieri di Dumas; Il principe e il povero di Mark Twain, stesso spunto ma senza parentela fra i protagonisti), benefattori che ricoprono un ruolo genitoriale rimanendo fino all’ultimo misteriosi (Grandi speranze di Dickens; in ambito per ragazzi La piccola principessa di Frances H. Burnett e Papà Gambalunga di Jean Webster). E poi giovani che si suppone essere – o si fingono – di umili origini, i cui nobili o ricchi natali vengono svelati al momento giusto per coronare un sogno d’amore (Anselmo in L’avaro di Molière; Florizel e Perdita in Racconto d’inverno di Shakespeare; ma anche John/Joan in La freccia nera di Stevenson, che insieme alle sue origini cela anche il suo sesso), sorelle che si sostituiscono al proprio fratello per rientrare in possesso di un’eredità spettante di diritto (Il servitore di due padroni di Goldoni; La dodicesima notte di Shakespeare), e via discorrendo in varianti sempre più intricate e appassionanti.
Nella biblioteca della mia infanzia ci sono due romanzi che rispondono perfettamente alle dinamiche dei classici sopracitati e che toccano da vicino anche il tema della fratellanza e sorellanza. Si tratta di Carlotta e Carlotta di Erich Kästner, pubblicato nel 1990 da Mondadori nella collana Gaia junior (oggi disponibile in una nuova edizione dal titolo La doppia Carlotta, per i tipi di Piemme junior) e di Polissena del Porcello di Bianca Pitzorno, pubblicato sempre da Mondadori nel 1993.
Oggi mi viene naturale citarli come discendenti di una precedente tradizione letteraria, ma nella realtà sono state le mie esperienze di lettura successive a essersi rispecchiate in questi romanzi. In quanto letteratura tout court, anche quella per ragazzi è capace di creare risonanze fra epoche e stili differenti e formare il gusto dei lettori più giovani nei confronti di un intreccio ben congegnato.
Carlotta e Carlotta potrebbe essere definita una variante della classica commedia degli equivoci, popolare fin dall’epoca romana e ancora in epoca moderna (La commedia degli errori di Shakespeare). La trama prevede che una coppia di gemelli, rimasti lontani lungo tempo o perfino ignari dell’esistenza l’uno dell’altro, si ritrovi per caso, finendo per servirsi della somiglianza fisica per sovvertire la propria sorte.
Nel caso delle ragazzine protagoniste del romanzo di Kästner la situazione da riparare è la separazione dei genitori. Cresciute l’una a Vienna e l’altra a Monaco da genitori coraggiosamente single per l’epoca (il libro è del 1949), Luisa e Carlotta s’incontrano in un campo estivo ed essendo simili come due gocce d’acqua nonché “complementari” (la prima vive solo col padre, l’altra con la madre), capiscono di essere state separate alla nascita. Divenute più che amiche – a tutti gli effetti sono sorelle gemelle – le bambine si scambiano di nome e dimora alla fine dell’estate, innescando nelle rispettive famiglie una catena di incidenti, divertenti ma anche toccanti, dettati dalle loro differenze di carattere e dall’ignoranza sui relativi comportamenti e abitudini.

Das doppelte Lottchen, regia di Josef von Báky, 1950
Il presupposto del romanzo Carlotta e Carlotta funziona così bene che è stato felicemente prestato al cinema in molteplici occasioni. La prima risale al 1950, per la regia di Josef von Báky. Hollywood ne ha sfruttato il potenziale comico e romantico – finendo per esaurirlo – in tre occasioni successive: nel 1961 in Il cowboy col velo da sposa (The Parent Trap), poi nel 1986 con Genitori in trappola e infine nel 1995 per Matrimonio a quattro mani.
Grazie all’eccezionalità della loro condizione, Carlotta e Luisa riescono a portare a termine due iniziative di norma precluse ai loro coetanei: la prima è quella di sperimentare come si vive nei panni di qualcun altro; panni che, come la proverbiale “erba del vicino”, paiono sempre più allettanti dei propri (quanti romanzi e film per ragazzi prendono le mosse da un transfert miracoloso fra opposti, genitori e figli, maschi e femmine, perdenti e primedonne… ma questa è un’altra storia!).
La seconda, e più importante, iniziativa è riuscire ad avere voce in capitolo nelle scelte degli adulti, convincendo addirittura i genitori a ricostruire il legame sentimentale interrotto e ridare unità alla famiglia. Un risultato che appaga fortemente i giovani lettori.
Perché è così eccitante per bambini e ragazzi immaginare di avere una parentela celata o taciuta in precedenza, e, di conseguenza, perché è così coinvolgente leggerne?
Nel secolo scorso si è cominciato a interpretare la finzione narrativa alla luce della psicologia. Si può essere o meno d’accordo sul ricorso a categorie psicologiche o meglio ancora psicanalitiche nell’interpretazione dell’arte, ma sta di fatto che tra i tanti possibili scenari di agnizioni familiari ce n’è uno che risponde a una fantasia conscia e inconscia molto comune fra i bambini. È il cosiddetto “romanzo familiare”, esaminato da Freud all’inizio del Novecento, ossia il desiderio di scoprire di non essere figli dei propri genitori e magari – aggiungo per l’occasione – di avere dei fratelli e delle sorelle imprevisti.
Tale complesso, che nella realtà trova sfogo nei sogni o in fantasie inespresse, sul piano letterario può trovare un’applicazione molto feconda: dalla scoperta di natali sconosciuti derivano necessariamente peripezie e avventure tese a svelare la nuova identità e il destino a essa connesso. Quanti sviluppi possibili, sconvolgenti o rassicuranti, fantastici o realistici, nel ritrovarsi imparentati con persone credute estranee alla famiglia originale, siano essi sconosciuti o ancor meglio amici o alleati della prima ora!
Nell’ambito della letteratura per ragazzi, è ciò che viene realizzato dalla scrittrice Bianca Pitzorno nel romanzo Polissena del Porcello, prendendo spunto da un episodio del proprio passato personale, raccontato nella simil-autobiografia Storia delle mie storie:
Ora lei credeva di essere mia madre, ma io sapevo che non era così e ogni volta che venivo sgridata, punita o sculacciata, pensavo con grande soddisfazione alla mia rivincita, quando i miei veri genitori fossero arrivati a reclamarmi e fare le mie vendette.
(Da Bianca Pitzorno, Storia delle mie storie, Il Saggiatore, pag. 59)
Come riporta anche Emy Beseghi nel suo saggio Polissena nel labirinto di Bianca (in Nel giardino di Gaia, Mondadori), l’autrice costruisce l’incipit letterario del suo romanzo sulle stesse premesse:
Come succede spesso a molti bambini anche Polissena Gentileschi nei suoi undici anni di vita aveva fantasticato di non essere veramente figlia dei suoi genitori.
(Da Bianca Pitzorno, Polissena del Porcello, Mondadori)
Quando Polissena scopre per puro caso di essere una trovatella, scappa di casa all’insaputa dei genitori per andare alla ricerca delle sue vere origini. Seguendo le tracce di uno scialle, di una spilla, di una pezzuola strappata, capitati fortunosamente fra le sue mani, la bambina percorre in lungo e in largo un paese che assomiglia alla Sardegna del diciottesimo secolo, andando incontro in ogni tappa a una rocambolesca catena di disvelamenti e agnizioni incrociate, che hanno tutto il sapore della letteratura romanzesca tanto amata dall’autrice, ma riescono ad appassionare e divertire anche i giovani contemporanei.
Lungo la strada non sono però le parentele con i genitori veri o presunti (un povero marinaio, un crudele pirata, una Regina vedova) a rallegrarla, ma piuttosto l’incontro con la giovanissima attrice girovaga Lucrezia, conduttrice di un serraglio di animali acrobatici, che si rivela una fedele compagna d’avventure e amica. A più riprese Polissena sogna di continuare a vivere con Lucrezia come sua sorella, immaginando che la sua nuova famiglia ideale possa adottarla seduta stante.
Alla fine ciò non accadrà (non vi racconto perché dal momento che non voglio svelarvi troppo del finale…); ma proprio Lucrezia, cresciuta in solitudine, si ritroverà imparentata con un’altra coetanea, insieme alla quale sperimenterà una nuova forma di complicità.
È l’effetto che potrei chiamare del “braccialetto indiano”, prendendo spunto dal titolo di un romanzo per ragazzi che parla di due bambine che, dopo molte peripezie e svelamenti, scoprono di essere cugine, pubblicato nel 1941 e molto amato da Bianca Pitzorno. L’autrice lo inserisce fra i sui libri culto, elencati in Storia delle mie storie, e lo cita anche nel suo recente romanzo per adulti La vita sessuale dei nostri antenati (Mondadori, 2015), per sancire la forte carica emotiva che una serie di rivelazioni su passate infedeltà e segreti di famiglia assumono per la protagonista del romanzo:
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Il braccialetto indiano, Germana Verdat, Salani, Firenza 1939, ristampa 1953
«No, non siamo parenti» disse Myriam. «Anche se io e Grazia a nove anni ci eravamo scambiate il sangue tagliandoci un polpastrello col temperino. Volevamo essere sorelle di sangue. Ci scrivevamo dei biglietti firmandoci Maia e Mahor come due personaggi di un romanzo che ci aveva appassionato.»
«Il braccialetto indiano! Della Biblioteca dei Miei Ragazzi Salani. L’ho letto anch’io quando avevo otto anni» esclamò Ada. «Ma Lauretta il patto di sangue con me non l’ha mai voluto fare.»
«Scusa, ma che bisogno c’era? Voi lo stesso sangue lo avete davvero, siete figlie di due fratelli» osservò Myriam.
Lo zio Tan e Gerrit ridevano a questa valanga di ricordi. E Ada si sentiva un po’ in colpa a pensare di essere l’unica […] a conoscenza della parentela reale, del reale legame di sangue [con Myriam]. Come aveva potuto dubitare delle parole scritte dalla nonna sul diario segreto!
[/pullquote]L’elemento romanzesco mutuato dall’infanzia sugella e legittima il romanzesco nella vita (e nella letteratura) degli adulti. Bianca Pitzorno fa vivere alla sua protagonista un “romanzo familiare” inverosimile, che comprende storie di maternità snaturate, identità femminili celate in abiti maschili, inconsapevoli sorelle e cugine illegittime legate da affinità elettive, i cui episodi illuminano di un senso nuovo la conquista della sua maturità come donna, figlia, nipote.
Se andare a indagare l’identità dei propri genitori – naturali o adottivi che siano – è qualcosa che ha a che fare con il passato, la scoperta di fratelli, sorelle e cugini ai quali ci lega il destino è un vantaggio, un’occasione in più per confrontarsi e crescere insieme. Più di una semplice amicizia, una parentela conquistata grazie all’intervento della sorte con un coetaneo o una coetanea sancisce una complicità duratura, che ha radici in un passato comune e al tempo stesso proietta la relazione, e la narrazione della stessa, nel futuro.