Lo dico subito: parlerò di Pokémon Go.
Lo hanno fatto in tanti e lo faranno ancora in tanti: non lo farò però per nostalgia dei vecchi tempi andati in cui si collezionavano fiori secchi, e non parlerò degli incidenti stradali fatti cercando di prendere Pikachu, né del fatto che questo gioco non è socializzante oppure è socializzante.
Non mi interessa: anche perché credo che ci siano tante cose più interessanti intorno a cui ragionare. Perché quando si vanno a studiare i giochi, si possono scoprire i modi con cui interagiamo con il mondo, con gli altri, con la conoscenza – si può più facilmente trovarsi a fare filosofia (cioè a ragionare) più che a fare gli opinionisti (cioè a volere avere ragione).
Che cosa è Pokémon Go? Probabilmente lo sapete già: è un gioco per smartphone uscito nel luglio 2016, battendo molti record come app più scaricata e gioco più virale di sempre. Nel gioco ci si muove per le strade in tempo reale, seguendo una mappa (è un gioco che sfrutta quindi moltissimo la geolocalizzazione) per catturare dei Pokémon che appaiono dentro il paesaggio sulla schermata del nostro telefono (è quindi un gioco che applica molto bene la realtà aumentata). I Pokémon, per chi avesse dormito negli ultimi venti anni o letto soltanto i classici, sono un fenomeno multimediale nato con i videogiochi nel 1996 e che ha successivamente dato vita a delle serie TV (dal 1997), dei lungometraggi (dal 1998), un gioco di carte collezionabili (dal 1998), tutti di immenso successo. I Pokémon sono “pocket monster”, mostri tascabili da collezionare e allenare perché possano crescere (“evolversi”) e portare i propri allenatori a competere a livello planetario.
Per quanto i mostriciattoli siano il cuore del gioco e delle serie, la cosa più ludicamente interessante non è il loro essere creature mostruose. Quello che è interessante, e coerentemente portato avanti in oltre vent’anni, è il gioco della raccolta fatta all’interno di un mondo sempre più reale, nello spazio e nel tempo: in due parole “Collezionali tutti”, o meglio “Acchiappali tutti”, lo slogan storico del mondo Pokémon.
Mappe di gioco
Tra le tante cose che i giochi fanno da sempre c’è anche la possibilità di racchiudere mondi. Molti giochi affiancano alle componenti immateriali (il regolamento, il nome, i rituali di gioco) dei “materiali” di gioco: pedine, dadi, carte e “tabelloni” o “scacchiere”. Tra i reperti di gioco più antichi compaiono schemi più o meno astratti che rappresentano dei luoghi, delle mappe, su cui muovere delle pedine.
Sono giochi in cui non conta “dove” ci si sta muovendo, quanto il fatto che si debba arrivare in fondo – sono “giochi di percorso”, come il Mehen egiziano, in cui le pedine si spostano lungo una spirale le cui caselle sono le scaglie di un serpente stilizzato, o come il gioco “della palma” o “dei cani e degli sciacalli” in cui ci si sposta intorno e sopra una palma.
Giochi di percorso più “moderni” sono il Gioco dell’Oca e i successivi giochi a stampa che ne riprendono l’idea, fino a introdurre vere e proprie mappe. L’altro erede diretto del Mehen è il labirinto, inteso come percorso intrecciato ma privo di bivi, da percorrere fino all’arrivo. Ai giochi di percorso più antichi sono intrecciati significati misterici, e lo stesso movimento rappresenta la conoscenza e il cammino sulla Terra dell’uomo.
La mappa è quindi, nei giochi e nelle pratiche antiche, anche questo, anzitutto questo: una possibilità di replicare simbolicamente un percorso che dura tutta la vita e occupa tutto il mondo. È un labirinto che si può percorrere col dito o con l’intera persona, è una storia che si snoda e che può cambiare ogni volta in base al tiro di dadi, pur rimanendo la stessa.
Mappe completamente diverse compaiono in altri giochi antichi, come gli scacchi o il go: sono i cosiddetti “giochi di scacchiera”, perché il tabellone non è più un percorso orientato, ma una griglia che si può percorrere lungo più direzioni. Il gioco non riguarda più il cammino dell’uomo ma la sfida, la battaglia, la simulazione. Fanno capolino qui elementi delle differenti aree geografiche, come il fiume che divide il campo di battaglia degli Xiangqi, gli scacchi cinesi, ma sono molto più riconoscibili le caselle, la griglia dentro cui si sfidano i contendenti.
Lungo questa strada arriviamo ai soldatini e al KriegSpiele, agli scontri su mappe che prevedono una maggiore libertà di movimento e di scontro tra giocatori.
Mappe evocative
Nell’uno e nell’altro caso, nei giochi di battaglia e in quelli di percorso, il gioco è una matrice di storie, un contenitore di mondi: sappiamo che su quella mappa replicheremo la storia di una battaglia, ma non sappiamo come andrà la battaglia stessa; ci sfideremo ad arrivare in fondo al percorso, ma non sappiamo cosa succederà. Le storie sono al tempo stesso determinate (cioè precise, circostanziate) ma incerte (non sappiamo chi vincerà, non sappiamo come finirà).
Quando il gioco entra nell’era industriale, perde in universalità e guadagna in dettaglio: aumentano quindi i riferimenti diretti di ogni mappa a luoghi specifici. La mappa del Monopoly originale è quella di Atlantic City, con le strade di Atlantic City; quella del Monopoli italiano contiene invece le strade di Milano – e quando la toponomastica milanese cambia con la fine della dittatura fascista, anche nel Monopoli le strade cambiano nome.
Le mappe dei giochi si fanno così dettagliate da contenere interi mondi, mondi paralleli come quello di World of Warcraft, un fenomeno che fa impallidire Second Life per numero e creatività dei giocatori. Si gioca su mappe infinite, che si scoprono durante il gioco, spostandosi su un territorio che (potenza del gioco) è la mappa stessa. I giochi sono diventati così misti e complessi che non sono più solo “di percorso” o “di battaglia”, ma possono ospitare qualsiasi cosa, compresa la modificazione o la creazione di nuove parti di territorio.
Le mappe possono essere disponibili a tutti, come nei tabelloni, o conosciute solo al master, come nei giochi di ruolo: tra gli scopi del gioco c’è allora anche l’esplorazione del territorio stesso, la scoperta dell’immaginario comune.
Dicevo: la mappa contiene infinite storie. Per chi legge un libro, la mappa allegata al libro permette di immaginare vicende secondarie o territori non descritti… nessun libro mappa mai completamente tutto l’universo immaginato dal lettore. Al limite, ed è il caso dei LibriGame, il libro può presentare dei bivi che consentono di descrivere più vicende contemporaneamente: ma mai infinite.
Così a partire dal Novecento i giochi hanno avuto anche il compito di offrire agli appassionati una matrice per tutte le storie possibili: sono più di cento, per fare un esempio, i giochi realizzati sotto licenza del “Signore degli Anelli”. Tutti partono dalla mappa acclusa al libro di Tolkien, e tutti permettono di esplorare alcune delle sottovicende, o di creare nuove storie plausibilmente tolkieniane.
Giocare nel mondo
Da sempre, oltre a giocare “sulle mappe”, si gioca “con le mappe”: sono giochi poco strutturati come le cacce al tesoro o molto strutturati come le gare di orienteering. Di nuovo, gli intrecci e gli andirivieni tra gioco e narrazione possono essere molteplici e continui.
L’idea davvero nuova è però del 2012, quando la società di videogiochi Niantic lancia Ingress, il primo videogioco “geolocalizzato”, in cui si gioca su una “mappa” (il proprio avatar che si sposta sui percorsi di Google Maps dentro il proprio smartphone) che è il territorio: come in Pokémon Go, degli stessi sviluppatori, bisogna muoversi fisicamente per il mondo, mettendo trappole, seguendo tracce, agendo per il controllo del proprio mondo.
A partire da questo gioco Tsunekazu Ishihara (capo della Pokémon Company) decide di sviluppare un analogo prodotto dedicato ai Pokémon, che conosce un primo momento di visibilità il primo aprile 2014, quando The Pokémon Company e Google lanciano Pokémon Challenge, che chiedeva di trovare i Pokémon all’interno del servizio Google Maps. Nei due anni successivi Niantic, Pokémon e Google lavorano insieme per creare Pokémon Go.
Ed eccoci qui.
Anzitutto abbiamo finalmente un prodotto che in qualche modo scioglie il paradosso di una mappa che coincide con il territorio, molto caro a Borges; e abbiamo anche un gioco che confonde ancora di più i confini tra “reale” e “simbolico”. Sono entrambe cose con cui fare i conti, e che definiscono il mondo attuale.
Abbiamo però di più: abbiamo una narrazione che è cambiata impercettibilmente, abbandonando le “grandi narrazioni” ottocentesche e uscendo anche dall’epoca breve delle “narrazioni frammentarie” postmoderne. Pokémon Go, World of Warcraft, e un mazzetto di altri giochi di ruolo, di carte e videogiochi, ci stanno offrendo una narrazione che è allo stesso tempo infinita, condivisa e presente. È presente perché la possiamo ambientare nel mondo reale, perché ci chiede azioni concrete; è condivisa perché non ci scontriamo con nessun altro giocatore, ma vediamo persone che fanno esperienza di gioco; è infinita perché non sappiamo come finirà e non ha limiti ben precisi di gioco.
Sono, questi giochi, sintomo di “narrazioni allargate”, ripetitive ma stimolanti, molto coinvolgenti e con una possibilità (ridotta ma concreta) di partecipazione: cambieranno e stanno cambiando il nostro modo di leggere e partecipare alle opere, di condividere la passione per un prodotto o di ritenere “attuale” un certo testo o prodotto artistico.
È un bene o un male? Personalmente, credo nessuna delle due cose: è solo qualcosa di cui occorre tenere conto nel momento in cui proponiamo delle letture. Oggi, e d’ora in poi sempre di più, si chiede al libro e alle storie di essere reattive alle nostre azioni: e questo può anche essere un bene, se riusciamo a far capire che i libri e le storie sono, da sempre, una delle invenzioni più reattive.
Non dovremo arroccarci sull’immutabilità del libro; non dovremo nemmeno inseguire i giovani lettori creando modernissimi supporti del libro. Ci basterà far capire che i libri non sono reattivi, ma i lettori sì: e che condividendo i nostri percorsi di lettura, le nostre battaglie di lettura, incontreremo altri lettori. E proseguiremo la lettura con altri mezzi.