Abbiamo incontrato Fabio Geda e Marco Magnone al Festivaletteratura di Mantova, in una delle tante tappe degli incontri nati intorno a Berlin, un ambizioso progetto distopico che stanno firmando per Mondadori e che li impegnerà per sette volumi totali (visitate il sito per saperne di più). Berlin ci sta piacendo, e con Fabio e Marco ci siamo incontrati in diverse occasioni di festival e formazione: è un libro in cui la città (la città del muro, quella vera e quella finzionale) è un luogo-protagonista, come quelli che stiamo cercando di descrivere in questo numero. Così ci è venuto naturale chiedere un’intervista che si è trasformata in una lunga chiacchierata intorno al loro progetto comune, alle città e ai luoghi di un romanzo.
L’intervista è a cura di Angela Catrani (AC) e Beniamino Sidoti (BS).
AC: Leggo e ho letto Berlin da più punti di vista, e funziona davvero. Sono rimasta molto colpita dalla crescita dei personaggi, che si può notare anche nei quattro mesi circa che trascorrono tra i due volumi… Traspare decisamente la cura che ci avete dedicato, quindi comincerei da qui: come avete costruito i personaggi?
Fabio Geda: Nel nostro lavoro, come sempre nella scrittura, c’è un doppio livello, una costante dialettica tra consapevolezza e inconscio. I personaggi, da un lato, li abbiamo creati con cura, pensandoli e progettandoli. Ma è anche vero che, come spesso succede quando si scrive, sono poi stati loro stessi a prenderci per mano e a guidarci. Io e Marco abbiamo lavorato a Berlin per oltre due anni prima di proporre il progetto a Mondadori. In quei due anni abbiamo preso appunti sulla storia, sull’ambientazione e sui personaggi, il cui percorso umano, le cui trasformazioni, ci stavano particolarmente a cuore. Per cui ti ringrazio di questa osservazione. Per prepararci io e Marco abbiamo letto tanta letteratura per ragazzi, in particolare quella che ruota intorno alle avventure urbane, dai classici alle grandi saghe americane, immaginando come ibridarli. L’idea di partenza, che certo non è originale, ma che secondo noi conserva una sua peculiare potenza, è quella di un mondo senza adulti.
AC: Non è originale ma è ormai un topos, un mito.
FG: Esatto. Abbiamo lavorato sul topos e lo abbiamo calato nel nostro contesto. Abbiamo messo tutto questo in un progetto che poi abbiamo presentato all’editore: una roba di 60-70 pagine, con le schede di tutti i personaggi, le relazioni familiari, i luoghi significativi… insomma, tutta la parte sommersa dell’iceberg, come direbbe Hemingway.
Marco Magnone: Volevamo creare dei personaggi con uno spessore, una profondità, capaci di risultare veri agli occhi del lettore ma anche di sorprenderlo, trasformandosi via via nel corso della storia. Per questo dovevamo conoscerne ogni aspetto fin nei minimi particolari: abbiamo persino cercato i loro volti sulle gallerie immagini di Google per aiutarci a capire chi avremmo avuto di fronte. Volevamo poter guardare ognuno negli occhi e chiedergli: “Tu, in quella certa situazione, cosa faresti?”
AC: Ma infatti! Li ho visualizzati, immaginati tutti, uno per uno!
FG: Abbiamo già lavorato sull’evoluzione di tutti i personaggi e la loro trasformazione… è tutto pronto.
BS: Diteci ancora della nascita di questo progetto… Fabio già scrive da anni, ed è al suo esordio nella letteratura per ragazzi; Marco, da più giovane, è invece al suo esordio, giusto?
MM: Sì, avevo iniziato con la solita gavetta cercando il mio posto tra riviste e giornali, poi per qualche anno mi sono occupato di diari di viaggio e guide narrative, pubblicando per editori torinesi. Il racconto del territorio è un tema che mi sta ancora molto a cuore, Berlin però è stata la grande occasione per esordire nella narrativa vera e propria, e in particolare per scoprire la letteratura per ragazzi, un mondo straordinario nel quale mi piacerebbe concentrarmi anche nei prossimi lavori. Con Fabio poi ogni volume è un modo per fare esperienza in modo progressivo. Per esempio, la prima stesura del primo volume è stata tutta di Fabio e io sono intervenuto successivamente, nel secondo ho preso qualche spazio in più nella prima bozza, mentre nel terzo, che ha due linee narrative parallele, ognuno si è fatto carico di una.
FG: Sì, non abbiamo un metodo stabilito, ma ci stiamo organizzando via via (ride). Anzitutto abbiamo una buona sintonia sul linguaggio. Per esempio, odiamo i libri verbosi e chi impiega una pagina per dire qualcosa che potrebbe essere detta in tre righe. Così come le descrizioni. Viviamo in un modo pieno di immagini. La nostra testa è un enorme archivio di fotografie e filmati. Le descrizioni hanno senso quando sono peculiari, e soprattutto quando sono emotivamente cariche, funzionali a un’emozione, quando sono un correlativo oggettivo. Oppure quando, come nel nostro caso, raccontano un mondo che i lettori più giovani poterebbero non conoscere. Ecco, su queste cose io e Marco ci troviamo in sintonia. Ma il nostro lavoro insieme comincia soprattutto con la progettazione del plot di ogni singolo libro. La mia stesura, nel caso dei primi due libri, è stata solo una traduzione in pagina di un plot condiviso e scalettato nel dettaglio. Fatta la prima stesura ci siamo rimbalzati il testo moltissime volte fino a percepirlo come perfettamente condiviso.
MM: Questo è un aspetto straordinario della narrativa. Quando ti immergi in una storia, e passi dal pensare a un plot a scriverla davvero, allora i personaggi iniziano a tenerti compagnia in ogni momento della giornata, anche indipendentemente dalla tua volontà, come avessero una vita propria.
FG: Sì, c’è sempre un momento in cui ti guardi allo specchio e hai la percezione di poter parlare con qualcuno di loro.
MM: Una cosa molto interessante del lavoro a quattro mani è osservare come si trasforma l’idea stessa di scrittura. Io non sono geloso delle mie parole in quanto tali, mi interessa molto di più il movimento della storia, la forza dei personaggi, il valore e il significato di una certa scena nel disegno complessivo della vicenda. In questo il confronto con Fabio, a partire da gusti condivisi, ci permette di trovare soluzioni a cui da soli magari non avremmo pensato. Il livello della lingua viene dopo, e naturalmente la maggior esperienza di Fabio è fondamentale.
AC: Questo si sente molto… ci sono proprio punti in cui vi fate prendere dalla vostra storia.
MM: Grazie! Per noi è importante che si percepisca, visto tutto il tempo che Berlin ci assorbe, una gran parte del quale è dedicata agli incontri con i nostri lettori. Lo riteniamo un momento preziosissimo in cui possiamo ascoltare i ragazzi su cosa pensano della nostra avventura, dei conflitti che abbiamo messo in gioco, e mettere meglio a fuoco cosa per loro conta davvero. Non di rado ci sorprendono grazie all’entusiasmo e al trasporto con cui vivono la storia, e questa è una enorme gratificazione.
FG: Per noi scrivere è un’esperienza, un’avventura. E gli incontri fanno parte di questa esperienza, non sono una celebrazione.
AC: Il modo in cui raccontate il vostro lavoro è affascinante… Torniamo un attimo indietro allo stile e al libro: mentre vi intervistiamo stiamo mettendo insieme un numero dedicato alle mappe e alle cartografie dell’immaginario, e a come i luoghi raccontano. Mi è piaciuto entrare con Berlin in una città chiusa (e chiusa nel racconto da anni), e da cui i ragazzi non escono: dopo la tragedia da cui prende le mosse il libro, dopo la scomparsa degli adulti, i ragazzi ci mettono due anni per riorganizzarsi, ma rimangono sempre dentro Berlino, che è sì il luogo della tragedia, ma è rassicurante. Rimangono in un ventre, un ventre uterino, anche se me li immagino persi. Dopo due anni fanno brevi incursioni verso l’esterno, e me li sono immaginati acquisire esperienze per poter attraversare le soglie, una crescita lenta, una seconda nascita o una seconda gravidanza…
FG: Oh, questa mi sa che te la rubiamo per qualche presentazione. Bella l’idea della seconda gravidanza. Mi torna perfettamente!
MM: Prima parlavamo di descrizioni e del rischio che siano inutili: qui è diverso, il paesaggio è protagonista, e il testo acquisisce senso dal contesto, dalla mappa nel quale prende vita. I nostri protagonisti nascono in un mondo chiuso, “in vitro”, e il muro è anche una barriera difensiva. La nostra Berlino, ma anche la Berlino vera, è un non-luogo dove tutto è già accaduto, è già stata costruita, ed è già stata distrutta. Berlino non è una città con uno stile definito: è condannata a divenire e mai a essere, come ha detto Karl Scheffler. È un guazzabuglio di impronte e di percorsi, un gigantesco zoo dell’anima in cui trovano espressione le visioni di Hegel e le canzoni degli U2.
AC: È un guazzabuglio di caratteri anche nella costruzione dei personaggi e dei gruppi di ragazzi.
FG: I cinque gruppi sono, per noi, cinque modalità di autogoverno, distribuite in cinque zone ben distinte della città. I ragazzi del Reichstag sono una specie di giunta militare. Quelli di Tegel sono sostanzialmente anarchici con una deriva nichilista. Mentre quelli dello Zoo sono anarchici, ma con una deriva utopista. E poi ci sono i tentativi di democrazia, sia all’Havel sia a Gropiusstadt. Ma con la differenza che il gruppo dell’Havel è composto da sole ragazze.
BS: Qual è il vostro rapporto con la geografia come luogo, come strumento, di racconto?
FG: Come dicevo prima per le descrizioni, per me la geografia funziona soprattutto da correlativo oggettivo. I luoghi, i panorami, gli ambienti, raccontano le emozioni in modo simbolico e metaforico. Sono sempre filtrati dagli occhi dei protagonisti e quindi riflettono i loro pensieri, le loro paure, le loro speranze. Ad esempio in Berlin è centrale la dimensione della sopravvivenza, della nostalgia. Ma anche la fuga.
BS: Questo elemento della fuga ricorre nella tua scrittura, Fabio, l’immagine di un ragazzo in movimento (o fermo, come nell’Estate alla fine del secolo)… come se spesso scrivessi con i luoghi stessi.
FG: Sì, i miei protagonisti si ritrovano spesso a scappare. Abbandonano i luoghi, le famiglie, la loro storia passata. È come se i luoghi assorbissero le nostre storie, per cui, quando si vuole ricominciare da capo, non si possa fare a meno di cambiare posto, città, quartiere. In parte è qualcosa che scelgo di far succedere, in parte è un meccanismo narrativo in cui scivolo in modo naturale: è qualcosa che accade sulla pagina e che io seguo, mi piace descrivere gli spostamenti, le ricostruzioni.
BS: E per te, Marco, che arrivi dalla descrizione non narrativa dei luoghi?
MM: Per me i luoghi non sono oggetti fissi o statici, sono come i libri: dei processi in atto, che cambiano di per sé ma anche in funzione di chi li attraversa e li osserva. Come per qualsiasi narrazione: prendiamo Friends, la serie TV. Quando la guardavo negli anni Novanta a quindici anni mi ricordo che il personaggio con cui mi identificavo era Ross. Oggi la rivedo e vedo tutt’altro, anche se le puntate sono le stesse, perché ad esser cambiato sono io. Lo stesso vale per i luoghi. Le città non sono solo i monumenti di pietra, le cattedrali, le piazze: sono anche e direi soprattutto le persone che le vivono, le animano e così facendo ne cambiano l’immagine tanto quanto un piano urbanistico o una riqualificazione. È naturale, umano, tentare di definire un luogo chiudendolo in categorie univoche: ma a guardarli meglio anche i luoghi sono come le persone. Incoerenti, complessi, schizofrenici.
BS: I vostri protagonisti hanno la possibilità di ricostruire da niente, dalle macerie, di partire da zero…. Quanto veramente si può partire da zero con un luogo? Penso ai terremoti di questi anni, all’illusione delle “new town” dopo il sisma dell’Aquila e ai nuovi piani per l’Emilia e per Amatrice…
MM: Il problema secondo me è che spesso le cosiddette “new town” non hanno un progetto, un’idea di città come occasione di socialità, si limitano a rispondere alle esigenze di sopravvivenza. Ma per l’uomo non è sufficiente sopravvivere, ha bisogno di vivere, di sentirsi parte di una storia comune, di creare comunità, di condividere significati. Per questo abbiamo bisogno del passato, delle sue sedimentazioni. Per marcare lo scarto tra vivere e sopravvivere.
AC: Questo è vero anche in Berlin.
FG: A me piace vivere in mezzo ai fantasmi delle persone che mi hanno preceduto e che sono stati assorbiti dai muri, dalle pietre e dalle strade, e ovviamente la Storia e i fantasmi vibrano nelle vecchie città; per contro soffro tutto ciò che è nuovo e sintetico, e quindi pensare a una new town fatta di prefabbricati mi mette angoscia. Questa cosa vale anche per Berlin. Quelli che decidono di restare lo fanno perché lì hanno i loro fantasmi. Per quanto mi riguarda, credo preferirei, con tutti i limiti del caso, restare sulle macerie della mia città, provando a ricostruirla. Per capirci, dopo un terremoto io sarei uno di quelli che piazzerebbe la tenda nel cortile di casa sua.
AC: Lo hanno fatto davvero, sai, in Emilia, tante persone che conosco…
MM: C’è una scena fondamentale in Berlin: Jakob passa davanti al Sound, una discoteca storica che nella narrazione giace abbandonata e invasa dai topi come molti altri luoghi di Berlino. Tuttavia per Jakob e gli altri non è solo quello che appare, è molto di più, rappresenta il filo col proprio passato, qualcosa da difendere e custodire come un tesoro per evitare che se ne perda anche la memoria.
FG: Sì, il la forza del passato scorre in modo potente in Jakob. Spesso va a casa dei suoi genitori, quella che era stata casa sua, si chiude la porta alle spalle e sta lì. Lo fa perché ha bisogno di rivivere i suoi fantasmi da solo.
MM: Non è un caso che sia Jakob a vivere con i fantasmi: è quello che più riflette sul passato, che sa trarne lezioni attraverso i flashback, riannodando i fili tra ciò che ha imparato dai propri genitori e il presente. I valori di collaborazione e solidarietà in cui crede con tutto se stesso e che sono alla base del gruppo di Gropius sono un esempio perfetto di questa continuità.
AC e BS: Non sappiamo come ringraziarvi… del vostro tempo, della passione che mettete in questo progetto, della vostra umiltà e disponibilità, e per essere riusciti allo stesso tempo a stare sul libro e a portarci dappertutto. Grazie mille!
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