Cala la notte e la casetta ai margini del bosco abitata dal taglialegna si riempie di sospiri e parole: la carestia si è abbattuta sul Paese e non c’è quasi più nulla da mangiare. Due genitori si confrontano e due bambini, svegli per la fame, ascoltano.
Mi ha sempre colpito la fiaba di Hänsel e Gretel: da bambina era l’angoscia dell’abbandono, mal mitigata dalla casetta di pane e focaccia, visto il tranello teso dalla strega.
Mi rimaneva, in quell’età particolare in cui si è spesso dentro e fuori dal mondo magico, un senso di impotenza: io me la caverò là fuori?
La Rimini degli anni Ottanta della mia fanciullezza era invasa dai tossicodipendenti: li trovavi a ogni angolo di strada; c’erano siringhe lasciate nei giardini pubblici sotto ai giochi per i bambini, mentre nei vicoli mal illuminati persone stese a terra chiedevano soldi per la prossima siringa.
Io me la potrei cavare là fuori?
Non ho sassolini da lasciare, non ho nemmeno riferimenti visivi a camini o a uccelli che mi indichino la via.
Le strade buie di una città sono terrificanti, per un bambino piccolo: l’orientamento è scarso, è tutto enorme e posto a una altezza vertiginosa. I rumori giungono improvvisi: il clacson di un’auto che sbanda, una finestra che sbatte, le urla scomposte di persone ubriache.
Io me la potrei cavare là fuori?
I soldi erano scarsi, in quegli anni Ottanta in cui due genitori giovani stavano ancora definendo la professionalità futura. E la scarsità di soldi si traduceva in preoccupazioni, notti di discussioni a voce troppo alta, la nonna che portava in dono la carne. Ero una bambina che leggeva tantissimo, e spesso il confine tra la fantasia e il reale si sfumava nei sogni a occhi aperti. Sognavo di essere stata adottata, di venire abbandonata, di essere una principessa in incognito, di dover lavorare per poter mangiare…
Io forse non me la sarei mai potuta cavare là fuori, da sola, come Hänsel e Gretel: non conoscevo altro che la strada per andare a scuola e quella per andare dai nonni paterni (luoghi assai vicini a casa).
Soprattutto, per la mancanza di esperienza, non avevo mai collegato che quei sassolini potessero davvero luccicare alla luce della luna: pensavo che mai avrei potuto affrontare da sola una notte all’addiaccio, mi sentivo perduta solo all’idea, e naturalmente questa sottile possibilità mi dava la giusta eccitazione per proseguire nell’ennesima lettura di questa fiaba.
Splendeva chiara la luna, e i sassolini bianchi davanti alla casa rilucevano come monete nuove di zecca. Hänsel si chinò e ne ficcò nella taschina della giacca quanti potè farne entrare. (da Fiabe, di Jacob e Wilhelm Grimm, Oscar Mondadori, 1951, traduzione di Clara Bovero)
Paura, angoscia, senso di abbandono, fame: un mix esplosivo che mai Disney si è potuto permettere, non almeno negli anni d’oro della sua produzione cinematografica.
Eppure ancora oggi la fiaba di Hänsel e Gretel risuona potente nell’immaginario di ogni bambino. È famosa al pari di Cappuccetto Rosso (altra fiaba mai rappresentata da Disney), per esempio.

Pollicino di Charles Perrault illustrata da Gustave Dorè
La fiaba ha origini antiche, inutile dirlo, già Charles Perrault nei suoi I racconti di Mamma Oca, racconta una storia piuttosto simile, la fiaba di Pollicino: la carestia ha percorso l’Europa svariate volte nel corso dei secoli, insieme alle pestilenze e alle guerre.
Ma torniamo alla nostra fiaba.
L’abbandono dei figli avviene di giorno, accendendo loro un fuoco e dando un ultimo pezzo di pane. Perché di giorno? Al di là dell’inganno del lavoro, perché non li portano fuori di notte?
Il rito iniziatico avviene di giorno, sotto lo sguardo della comunità, con un fuoco, simbolo di civiltà, con il cibo, ultimo cibo disponibile che i due adulti si tolgono di bocca.
Perché poi tutti e due? Perché abbandonarli insieme? Il maschio poteva essere utile al taglialegna nel suo lavoro, la bambina poteva essere messa a servizio presso altri (cosa che poi farà dalla strega).
La vicenda si ammanta di mistero: a meno che, in realtà, non si volesse provare a salvare i bambini, a dar loro una possibilità concreta di farcela; il bosco cela misteri, ma anche cibo: bacche, funghi, radici, frutta. Il bosco accoglie e raccoglie, protegge e nasconde.
Chi voleva far del male ai due bambini? La peste? Un taglialegna sa che il bosco è fonte di sostentamento, sa che all’interno del bosco i due bambini potevano trovare, forse, la salvezza.
Accetta alla fine di abbandonarli per salvarli, per far fare loro un viaggio salvifico.
Hänsel il furbo agisce subito, cerca per due volte un espediente per tornare indietro, ma solo Gretel sa che devono percorrere questo viaggio: lei non fa nulla, tira dritto. All’inizio rimane passiva rispetto al fratello, sempre un passo indietro, ma è lei che uccide la vecchia, è lei che salva Hänsel, è lei che trova la soluzione per attraversare il fiume.
Gretel accudisce, nutre, accoglie, trova soluzioni reali.
Hänsel prova, arranca, sbaglia, mangia.
Nella prima versione della fiaba del 1812, era la madre a voler abbandonare i bambini (a differenza di Pollicino, dove la madre ha un ruolo più sottomesso), che divenne poi la matrigna nella revisione del 1840 e seguenti. Come evidenzia Jack Zipes nel saggio Chi ha paura dei fratelli Grimm
“Possiamo vedere come ogni singolo racconto orale originale sia stato deliberatamente, a volte drasticamente, cambiato dai Grimm . […] Una volta che le storie furono stimate appropriate per il pubblico delle classi medie, Wilhelm coerentemente cercò di venire incontro alle aspettative di quel pubblico. […] Nel processo, eliminarono accuratamente quei passaggi che pensavano sarebbero stati dannosi per dei bambini.” (pag 101, traduzione di Giorgia Grilli, Mondadori 2006).
Dunque non più la madre, che nella borghesia ottocentesca tedesca è figura impostata e potente, ma la matrigna, la seconda moglie. Siamo chiaramente all’interno di un sistema morale cristiano, dove anche risposarsi dopo un lutto è peccato, dove solo colei che ti genera si può prendere cura di te (i riferimenti ad altre fiabe si sprecano, naturalmente).
Si perde dunque, con questa riscrittura borghese, la forza della decisione della madre, che abbandona per dare una possibilità di salvezza.
La matrigna decide di abbandonarli, il padre subisce la decisione.
Lei agisce, lui si lamenta.
Lui è debole, incauto, non prova a cercare altre soluzioni, non offre alternative.
La madre spinge all’abbandono perché sa che in casa, con quell’uomo debole, l’unica alternativa è la morte, sicuramente. Il bosco invece offre alternative e soluzioni. Ma è lei, la madre/matrigna, a morire per prima, prima che i due bambini tornino dal bosco, alla fine del viaggio salvifico, vittoriosi e ricchi.
(Come non richiamare alla mente più recenti abbandoni via mare? E come non fare un paragone con altre carestie? Chi giudica non legge, chi giudica non sa)
L’uomo non aveva più avuto un’ora lieta da quando aveva lasciato i bambini nel bosco, ma la donna era morta. Gretel rovesciò il suo grembiulino, sicché le perle e le pietre preziose saltellarono per tutta la stanza, e Hänsel vi aggiunse a manciate il contenuto della sua tasca. (op.cit)
Questa, come altre fiabe della tradizione europea, è ambientata in una foresta.
Il bosco rappresenta un immaginario potentissimo a livello visivo: sono miriadi i libri che rappresentano boschi e foreste, molti di più di quelli in cui, per esempio, si disegnano le città.
Naturalmente questo ha una precisa origine storica: fino a metà dell’Ottocento la foresta si allargava sulla maggior parte dell’Europa, era nascondiglio per briganti e ladri, reietti della società, streghe, e via andare. Dante, per esempio, ambienta la sua Divina Commedia nel mezzo di una oscura e tenebrosa selva e Dorè nel 1861 non fa che amplificare il potere oscuro della foresta con le sue superbe incisioni in una versione illustrata dell’Opera dantesca, definendo l’immaginario collettivo del bosco come fonte di problemi e morte, angoscia e paura. (Dorè illustra anche molte fiabe)
Ne parla in maniera precisa Anna Castagnoli nel suo blog, riportando un suo articolo per la rivista “Hors Cadres”: http://www.lefiguredeilibri.com/2011/11/09/seguendo-le-briciole-nel-bosco-un-mio-articolo-sulla-rivista-hors-cadres/

Le interpretazioni della casetta di Artur Rackham (a sinistra) e Kay Nielsen (a destra)
Illustratori come Artur Rackham e Kay Nielsen definiscono un immaginario preciso per la fiaba di Hänsel e Gretel.
Ma mentre Rackham (1900) è filologico e la rappresentazione è intensa, veristica, precisa e la sua foresta è oscura, inquietante, incombente, la foresta di Nielsen (1925) è una incantata cattedrale, dove l’orrore si stempera a favore di colori luminosi e brillanti (ma siamo in epoca diversa: la stampa ha fatto passi da gigante e ora stampare a colori è molto più veloce, facile ed economico). Per la prima volta la casetta si riveste di colorate caramelle e bastoncini di zucchero.
L’immaginario visivo di Lorenzo Mattotti riprende, per questa fiaba illustrata per Orecchio Acerbo nel 2009, il bianco e il nero con effetti notevolissimi e un impatto potente. La copertina del libro, dove il bosco nero incombe in primo piano, dirompe in mezzo a una chiassosa e coloratissima produzione editoriale contemporanea.
Quel che fa Mattotti è di restituire alla fiaba l’horror.
L’effetto catartico e protettivo della fiaba infatti è noto: quel che sorprende è come, in questi nostri anni, si voglia a tutti i costi edulcorare la fiaba cattiva, nera, paurosa e angosciante. Perché la casetta di pane e focaccia nell’immaginario visivo è diventata prima di marzapane e poi tutta a base di caramelle gommose e marshmallow di tutti i colori?
Il pane e la focaccia hanno un colore brunito/scuro a seconda della farina utilizzata e dubito che i due bambini tedeschi di umilissimi origini conoscessero il pane bianco. Era il profumo di pane cotto ad averli attirati!
Il fatto è che noi non conosciamo più la fame nera, quella che Walt Disney e i suoi contemporanei avevano sperimentato e volevano con tutte le loro forze dimenticare. Non la conosciamo più e dunque, per attirare due bambini tra gli infiniti verdi e marroni del bosco, tra il rosso delle bacche, i colori di insetti, uccelli e animali, noi moderni dobbiamo spingere sul negozio di caramelle, sui coloranti più vivi, sui fluorescenti che però non hanno alcun odore.
Probabilmente la versione di Nielsen, nata dopo la sconvolgente Prima Guerra Mondiale, pone la fine dell’immaginario cupo rivolto ai bambini (e non dimentichiamo che Nielsen è uno dei disegnatori che fecero Fantasia per Walt Disney).
Anche la nuovissima versione di Hänsel e Gretel per Pelledoca, la riscrittura in chiave moderna di Francesco Formaggi, ha le illustrazioni interne di Marino Neri in bianco e nero.
Mi ha colpito Anselmo e Greta di Formaggi perché il bosco è diventata quella metropoli che paventava tanto la me bambina (ma Rimini certo non può essere definita metropoli).

Interno tratto da Anselmo e Greta di Francesco Formaggi, Pelledoca 2020
Nella sua versione, due genitori già in là con gli anni, alcolizzati, brutalizzati da una vita di stenti e di depravazione, abbandonano nell’immensità della città due bambini piccoli. Il lunghissimo viaggio in pullman, l’infinito cammino nella città caotica per far perdere ogni senso di orientamento, i palazzoni altissimi, le auto, i passanti indifferenti, il rumore assordante e molesto: tutto contribuisce al profondo senso di disorientamento e incapacità di questi due bambini, che dopo alcune ore su una panchina di un misero parchetto pubblico, vengono rapiti da una strega del web, che li vuole costringere a essere per lei dei fashion kids.
Qui la furbizia e la tecnologia aiutano i due bambini, che dopo aver definitivamente rovinato la reputazione della strega, riescono a tornare a casa dalla madre, finalmente libera dal marito parassita e ubriacone. Nella storia di Formaggi è il padre il cattivo, padrone della vita e dell’anima, personaggio totalmente negativo e senza possibilità di riscatto.
Le illustrazioni grafiche di Neri amplificano l’angoscia, con la scelta di uno stile fumettistico che richiama i film horror in bianco e nero degli anni Trenta e Quaranta.
Hänsel und Gretel è infatti all’origine di un determinato immaginario horror filmico: l’abbandono, il bosco notturno, la strega che mangia i bambini. Fin dalla nascita del cinema, si sono succeduti, a breve distanza di anni, varie versioni filmate di questa fiaba.
Nell’editoria invece a parte la già citata versione di Mattotti e la recentissima riscrittura di Formaggi, Hänsel e Gretel viene pubblicata in Italia solo sotto forma di edulcorato raccontino per bambini molto piccoli, dove il focus è rappresentato dalla casetta coloratissima e zuccherosissima.
E la paura? E l’angoscia dell’abbandono? Dove finisce il valore catartico della fiaba, se non lasciamo spazio all’horror?
I bambini, però, e siamo di nuovo nella fiaba dei fratelli Grimm, escono dal bosco, quasi un moderno viaggio dal mondo dei morti e il fiume da superare lo conferma: l’anatra bianca è Caronte e la prova ulteriore è il doppio viaggio che deve fare.
Dopo aver camminato un paio d’ore, giunsero a un gran fiume. – Non possiamo attraversarlo, – disse Hänsel, – non vedo né ponte né passerella. – E non c’è neanche una barchetta, – rispose Gretel, ma là nuota un’anatra bianca; se la prego, ci aiuterà a passare -. E gridò:
– Anatrino, corri!
Hänsel e Gretel qui soccorri.
Nessun ponte passa il fiume,
prendici dunque sulle bianche piume.
E l’anatrino si avvicinò; Hänsel gli salì sul dorso e disse alla sorellina di sederglisi accanto. – No, – rispose Gretel, – sarebbe troppo pesante per l’anitra; ci trasporterà uno dopo l’altro.
I bambini tornano a casa, apparentemente sono passati pochi giorni, forse solo una notte: il rito iniziatico è terminato felicemente, ma la matrigna, in questo breve lasso di tempo, è morta: o meglio, muore la madre (die Mutter) nelle prime tre versioni, muore la matrigna (die Stiefmutter) nel 1840, mentre già nella versione del 1843 è die Frau (la donna) a morire. Vediamo ancora una volta come la lingua e le convenzioni sociali cambino la fiaba. Se era inconcepibile che a voler morti i due bambini fosse una madre, a morire però non poteva essere la matrigna, ma una più generica donna, moglie.
Perché?
I bambini uccidono la strega cattiva, si liberano dalla paura e dall’angoscia: diventano grandi. Hanno espresso nel rito iniziatico la potenzialità dell’attesa: la madre che li ha spinti nel bosco per salvarli ora è un angelo che li protegge, forse è addirittura quell’anatra che si è fatta Caronte per l’attraversamento del fiume. Non dimentichiamo infatti che l’anatra nella mistica antica è simbolo di rinascita.
Mancano di coraggio, i fratelli Grimm. Cambiano le parole, rifuggono l’orrore, lo edulcorano. Ma la fiaba, carica di anni e di significati salvifici, è lì, lavora sotto alla paura, si fa spazio nel silenzio e agisce, più potente della paralizzante modernità borghese della metà dell’Ottocento.
Bibliografia:
Jacob e Wilhelm Grimm, Fiabe, Oscar Mondadori 1951, traduzione di Clara Bovero
Jack Zipes, Chi ha paura dei fratelli Grimm?, Mondadori 2006, traduzione di Giorgia Grilli
Jack Zipes, Spezzare l’incantesimo, Mondadori 2004, traduzione di Giorgia Grilli
Massimo Montanari, La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Editori Laterza 1994
Bruno Bettelheim, Il mondo incantato, Feltrinelli 1977, traduzione di Andrea D’Anna