Salve, e benvenuti al museo delle parole.
Immagino sappiate già cosa aspettarvi da un museo, e non vi deluderò: una collezione importante, pezzi unici e bagni puliti.
Ci sarà tutto questo.
Il museo delle parole ospita alcune delle parole più rare e ricercate: ma anche preziose parole comuni. Parole straniere e parole italiane, e perfino parole tradotte.
Queste parole, come noterete, messe una accanto all’altra, formano dei discorsi. E alcuni discorsi particolarmente lunghi sono addirittura dei libri.
Sì, lo so, so cosa pensate. Sono guida al museo delle parole da molte generazioni, e ho incontrato tante persone. So cosa pensate. Che i libri non sono dei musei. E i musei non sono dei libri. Giusto?
Beh, grazie per la domanda.
Immaginiamoci un libro che parli di un museo. O un catalogo di un museo, dai, direttamente. Partiamo da lì.
Un catalogo di un museo non è un libro, caro il mio visitatore e lettore, perché non nasce come libro. Giusto? Il catalogo è la fotografia del museo, ma il museo nasce prima.
E un museo non è un libro per tanti motivi, perché lo attraversi, ci stai dentro, respiri l’ambiente. Come qui: siamo in questo grande atrio, e ci siamo tutti insieme. E respiriamo quello che attraversa questa grande sala, e per ognuno di noi questo vuol dire una cosa diversa: ma tutti vediamo la luce filtrare dal lucernario; e se piovesse, tutti sentiremmo il ticchettare delle gocce di pioggia sui vetri del lucernario. Sì, sono rumorosi. Però abbiamo inventato un sistema per cui, quando piove, si sente come il rumore di uno scrittore che batte su una vecchia macchina da scrivere. Se piove poco, sembra di sentire qualcuno battere su una tastiera di un computer; se grandina, sembra che lo scrittore sia molto arrabbiato.
Siamo qui, c’è la luce; e se stiamo zitti, c’è il silenzio.
Il silenzio: qualcuno sta scrivendo su un iPad.
Però. Pensiamo per un attimo di essere dentro un racconto e non dentro questa sala: allora questo sarebbe ancora un museo?
C’è un libro con le illustrazioni, e solo per il fatto di avere le illustrazioni lo chiamiamo libro per ragazzi. Dentro questo libro c’è un museo; dentro il museo c’è anche una palla di vetro, e dentro questa c’è un castello. E dentro il castello c’è una bambina.[i]
La bambina è un po’ triste e molto sola: trae compagnia dai visitatori, e dentro le sue stanze ha tanti oggetti, un po’ come un museo dentro il castello dentro il museo. Potresti aggiungere la tua foto vicino al suo letto, per farle compagnia. E guardando le figure ti perdi tra gli oggetti e sei dentro al museo. Che però è dentro un libro.
Aspettate, c’è una domanda. Mi dica.
Avrei voluto entrare da bambino in un luogo così.
Non perché io sapessi e neppure presentissi le opere che sono esposte nei musei.
Ma è che lo spirito di un bambino è ossessionato da immagini ancora incompiute benché intense. Non sono le parole che hanno valore per lui, sono le immagini che vi intravede oltre. Di immagini non ne incontra mai che non lo turbino, lo spaventino, oppure che non lo attirino, che non lo seducano. E vorrà andare là dove – gli si dice – vi sono immagini, come oltre se stesso.[ii]
Capisco. Lei fa l’illustratore? Cosa, fa il poeta? Capisco. Invidia, eh?
È normale essere invidiosi delle illustrazioni.
Però mi ha colto in fallo, e non me la posso cavare con una battuta.
E non posso mentirvi.
Non scherzo: davvero non posso.
Quando sono stato assunto come custode del Grande museo delle parole sono diventato un Uomo di parola. Non posso mentire.
Quando ci sono delle immagini possiamo perderci, ci perdiamo dentro. La storia e le parole indicano una direzione, ma l’occhio vaga e vive l’immagine. Un museo è uno spazio dove è legittimo perdersi dentro le immagini. Non è poco.
Le immagini sono diventate di recente qualcosa da consumare, da sfogliare velocemente. No, queste sale non ve lo permettono.
Possiamo certo mettere delle immagini anche dentro i libri: ma non basta. Dobbiamo anche inventare un meccanismo, con le parole o con le figure, per trattenere lo sguardo e farlo vagare.
Allora, e non ci torniamo più sopra, il museo è un’invenzione per perdersi nelle immagini, e se il libro vuole che ci perdiamo nello stesso modo, deve inventarsi qualcosa di simile.
Quello che amo di questo museo è che non sai cosa ci può essere nella prossima sala: perché può esserci di tutto.
Dietro quella porta, per esempio, potrebbero esserci due maghi che vi diranno che per far apprezzare qualcosa dovete coltivare l’arte di stupire.[iii] Oppure potrebbero non esserci: i maghi sono fatti così.
Pensate una parola.
Ecco: ora ricordatevela.
Andiamo avanti, per di qua.
Attenti al tappeto: è un tappeto di parole intessute, la cui trama è molto complicata.
Noi non siamo qui per leggerla, o per comprenderla: anzi, la calpestiamo. Se volete perdervi nella trama, fate pure. Mica ho detto che le immagini non possano essere intessute con delle parole.
Questo tappeto, in particolare, come vedete, esce fuori del museo.
Ogni buon museo continua fuori del museo. Soprattutto il Grande museo delle parole.
Ecco, guardate là, in lontananza, quel tappeto, immaginate che non finisca mai. Immaginatevi che uscendo da questo museo vi portiate dietro quell’attitudine all’osservazione, quella capacità di guardare le immagini perdendovi dentro.
Il museo, allora, è dappertutto.
Che poi, venite, seguitemi, non c’è bisogno che sia per forza un tappeto. Nelle altre sale potreste seguire un filo, una luce, un colore; di là seguiamo addirittura un cavallo. Seguendolo potete trovarvi a raccogliere e guardare tutto come se fosse parte di un museo. A immaginare quel museo lì, un Museo immaginario.
Sì, lo so, non me lo sto inventando io: c’è proprio un libro fatto così. [iv]
Ancora libri?
Sì.
Vorrei insinuarvi il dubbio che si possano usare le parole per raccontare i musei, per inventare i musei, in un modo diverso dalle guide e dai cataloghi.
Vorrei raccontarvi il museo come se fosse un’idea, una grande idea.
Vedete quel pezzo di legno?
È Kubbe.
Kubbe ha fatto un museo[v] con tutto ciò che ha trovato, raccogliendolo e sistemandolo, mettendolo nel suo personale ordine. In quale ordine? Ci torneremo.
Il museo è una raccolta: presenta tanti pezzi insieme, e gli dà una logica; sono due giochi messi insieme: accumulare e trovare parentele.
Questa raccolta è completa?
No. Non è importante che lo sia.
Anzi, un buon museo deve essere incompleto: deve suggerire un modo di ordinare, e di trovare, e di guardare alle cose. E deve far venire voglia di andare avanti. Non può esser completo.
Ho capito che non avete capito.
Vi ricordate che vi avevo chiesto di pensare a una parola?
Bene.
Dietro quella porta c’è la vostra parola.
Apriamola insieme.
La parola è:
SESQUIPEDALE.
No?
Strano.
L’importante non è che nel museo ci sia la vostra parola: è che voi l’abbiate pensata, e che solo per questo ha guadagnato importanza. Avete inventato, come Kubbe, qualcosa dentro cui inserire questa parola.
L’importante è che sappiate dare importanza alle cose.
Che ci entriate dentro.
Ci sono tanti modi per entrare in un quadro, o in un libro, o in una parola.
C’era un signore, l’ultima volta, che mi raccontava che aveva imparato ad apprezzare i quadri ricostruendo i puzzle.[vi]
Oppure potreste semplicemente entrare nel quadro e cercare di risolvere alcuni piccoli enigmi.[vii] O raccontarvi delle storie, magari a testa in giù.[viii]
Se ci fate caso sono tutti modi per suscitare e coltivare la meraviglia: i buoni musei fanno questo, i buoni libri fanno questo.
Meraviglia e curiosità, due sorelle cresciute insieme (anche se ora vivono lontane).
Andiamo avanti, seguitemi.
È quello che dice una guida, no? Seguitemi.
Stiamo per entrare nella zona più terribile e problematica del museo. È una parola che ho evocato più volte, e che mi mette ancora i brividi: “catalogo”.
Prima persona del verbo “catalogare”.
Il museo presenta delle cose, vi mette curiosità, vi lascia il tempo di meravigliarvi.
E mette tutto in ordine.
Altrimenti, mi si dirà, non è un museo, è una raccolta.
Io ho delle perplessità su questo punto.
Catalogare deve essere un gioco infinito, che prosegue. Non un gioco che mette a posto tutti i pezzi. Il museo è incompleto.
Mi spiego con un esempio: immaginate di vedere la camera di Van Gogh, e immaginate di poterla mettere a posto, ordinarla per benino, come se doveste fare le pulizie. Oppure immaginate di rimettere bene a posto un quadro astratto, con i pezzi in ordine di grandezza.[ix]
Fa ridere, no?
Ecco: io credo che un ordine in un museo serva solo per farci cercare nuovi pezzi, o farci trovare nuove cose, ma che davvero non riesca a dare un senso al tutto.
Ci sono due storie opposte: un autore ha scritto un libro, e per scriverlo ha raccolto cartoline, oggetti, perfino mozziconi di sigaretta che in qualche modo c’entravano con la storia. Poi ha anche aperto un museo vero, che presentasse quegli oggetti.[x]
Dall’altro lato abbiamo un altro autore che è sempre rimasto affascinato da cartoline d’epoca con personaggi bizzarri e elementi inspiegabili: e su questi ha costruito un romanzo, come se la sua collezione potesse essere ordinata solo da una storia altrettanto bizzarra.[xi]
E c’è anche un’artista canadese che ha scritto la fine di un amore presentando gli oggetti di una coppia come se fossero un catalogo d’asta.[xii]
Per me, se volete la mia opinione sono altrettanti modi per dire che è inutile cercare di ordinare i pezzi di una storia. Oppure che una storia segue un ordine diverso da un museo: dentro un museo possiamo cercare di ritrovare i fili di una storia, e dentro una storia possiamo tracciare altri fili che si collegano con il resto della Storia.
E comunque, fidatevi: i musei sono fatti per perdersi. E l’ordine che diamo alle cose serve per ritrovarle, ma non è mai una cassettiera dove ogni cosa sta al suo posto, e c’è un posto per ogni cosa. Non succede mai: almeno, non succede nelle storie.
Nelle storie c’è un posto per noi e per la nostra storia.
Eccoci all’ultima sala del Grande museo delle parole. L’ultima sala è quella dedicata a noi stessi e alle nostre parole: qui troviamo i musei personali, e soprattutto troviamo una meravigliosa possibilità, quella di continuare la raccolta del museo.
Ci sono infatti alcuni musei, e alcuni musei su libro, che ti indicano come proseguire la raccolta, e come ampliare il museo. Sono musei in divenire, che ti chiedono di partecipare.
Anzi, questa cosa del partecipare riguarda tutti i libri che abbiamo incontrato: riguarda la bambina nel castello dentro al museo, riguarda la caccia al particolare e gli strani modi di ordinare i pezzi dei quadri, riguarda le storie bizzarre.
Però ci sono alcuni musei, due per ora, dentro un progetto dedicato agli universi sensibili: e sono un Museo delle foglie cadute[xiii] e un Museo degli alfabeti perduti[xiv]. Nel primo si raccolgono foglie cadute in occasioni particolari, e nel secondo alfabeti speciali; in entrambi c’è la possibilità di aggiungere i propri esemplari.
Signori, state per uscire dal Grande museo delle parole. Ricordatevi di perdere tempo, di trovare il vostro posto nelle storie, di trovare un ordine e poi un altro, di andare avanti e di aggiungere i vostri esemplari.
Non c’è un museo solo: siamo noi che, ogni giorno, raccogliamo ciò che ci sta intorno per dare un senso alla nostra vita.
Uscendo troverete il bookshop: ci sono tutti i libri che ho nominato.
Il grande museo delle parole non esiste; grazie per avermi seguito fino a qua e averlo così fatto esistere per qualche ora.