Questa che racconto è una storia intrecciata di fratelli, sorelle, libri, letture, soldatini e scritture.
E di condivisione, in particolare di condivisione delle storie: più che la scelta o l’ascolto di una storia mi interessa quel vasto e imprendibile mondo di azioni che si fanno per rivivere una storia, tra gioco simbolico e gioco di narrazione, tra racconto d’avventura e scritture bambine.
Nei ricordi d’infanzia di fratelli e sorelle, come stiamo raccontando in queste pagine, compare spesso la condivisione delle storie: se con i genitori tale condivisione ruota intorno alla lettura o al racconto orale, tra fratelli le storie diventano luogo di invenzione e di gioco infinito, dove le vicende narrate si fanno via via vicende improvvisate e portate avanti nella storia.
Particolare importanza come strumento di narrazione di storie ha il giocattolo: non tutti i giocattoli ma certi giocattoli, che diventano aggregatori di storie; ci sono le microstorie legate alla messinscena di frame (il gioco del dottore, il tè con le amiche, giocare alla mamma…), e ci sono storie più ampie, che si possono scatenare con gruppi di giocattoli più numerosi. Qui, in particolare, parlo di soldatini.
I soldatini, intesi come figurini umani in miniatura, accompagnano la storia dell’uomo (un esercito in miniatura è stato trovato in una tomba egizia, e non mancano evidenze a partire dall’epoca classica in varie parti del mondo). Sono però, quelli che arrivano a noi, appannaggio dei re o dei figli dei re, e vengono realizzati a mano in materiali nobili: è solo a partire dal Seicento, probabilmente anche grazie alla maggiore riconoscibilità delle divise e a un modo diverso di fare le guerre, che i soldatini si diffondono anche tra i figli dell’aristocrazia, con un artigianato dedicato (in particolare a Norimberga, che per secoli sarà sinonimo di soldatino) e con materiali di costo minore, come lo stagno e la carta.[i]
Della loro diffusione abbiamo testimonianza in varie memorie e in diverse collezioni, oltre che nei racconti di cui iniziano a diventare protagonisti: al figlio Giacomo il padre Monaldo Leopardi regala soldatini di carta (soldati pontifici, per la precisione), e Andersen fa diventare protagonista di una sua celebre fiaba un soldatino di stagno (accanto a una ballerina ancora di carta).

Soldatini di Giacomo Leopardi, conservati nel Museo Nazionale del Soldatino di Bologna.
I soldatini si prestano a diventare interpreti di storie ampie, tanto quanto i pupazzi più grandi interpretano storie più intime[ii]. Con i soldatini si possono raccontare battaglie (come in questa tela risorgimentale di Gioacchino Toma, del 1862) e intere guerre: conta il numero, la dimensione, la possibilità di collocarli nello spazio.

Gioacchino Toma, Piccoli patrioti, 1862
Con i soldatini si possono infatti facilmente inventare geografie e spazi più ampi, sfruttando le dimensioni della stanza: così in questa immagine che mostra lo scrittore inglese H.G. Wells, autore di uno dei primi regolamenti per battaglie in scala.

Da un giornale d’epoca, H. G. Wells gioca con i soldatini: l’immagine accompagna la presentazione del regolamento di gioco Little Wars (1913). Wells è quello coi baffi in primo piano, in ginocchio sulla destra è ritratto probabilmente l’amico Jerome K. Jerome.
La scala del gioco modifica anche la “scala” del racconto narrato; i soldatini si prestano a creare anche saghe, narrazioni estese o infinite: è quanto succederà nel 1974 con la pubblicazione di Dungeons & Dragons, il primo gioco in cui ogni unità coinvolta in un combattimento avrà una definizione precisa di tutte le proprie caratteristiche e obiettivi individuali, dando vita al nuovo filone dei giochi di ruolo, giochi narrativi per antonomasia.

La prima edizione di Dungeons & Dragons, di Gary Gygax e Dave Arneson, gennaio 1974
I soldatini non sono un gioco, ma un giocattolo: sono cioè uno strumento di gioco, in questo caso uno strumento per inventare giochi o per incanalare giochi già esistenti, come l’invenzione di storie infinite. Una scatola di soldatini è all’origine di una delle più celebri sorellanze letterarie, la vocazione alla scrittura delle sorelle Brontë[iii].
Nel 1826 Patrick Brontë regala a Branwell, l’unico figlio maschio, una scatola di soldatini per il suo nono compleanno. La madre è morta da cinque anni, e nel 1825 erano morte le due sorelle maggiori: all’epoca la famiglia è composta da Charlotte, la maggiore (10 anni), Emily (8 anni) e Anne (6 anni).
Il bambino, aperto il regalo, dona alcuni soldatini alle sorelle; a ogni soldatino verrà dato un nome, un titolo e una personalità: è l’inizio di un lungo lavoro di invenzione intorno a cui verrà costruito un intero continente.

Le sorelle Brontë ritratte dal fratello Branwell nel 1834: al centro l’ombra vuota del padre o di Branwell stesso.
Questo continente andrà espandendosi via via, per fare spazio sia alla storia che va costruendosi tra i quattro fratelli, sia per consentire libertà di movimento ai vari personaggi (i litigi tra fratelli corrispondono anche all’esilio di alcuni personaggi e alla necessità di dar vita a nuovi regni). Il continente ha un nome latineggiante che richiama quello dell’Inghilterra: è il regno di Angria.

La mappa di Angria, stilata da Branwell Brontë tra il 1830 e il 1831.
La vicenda personale di Branwell è drammatica: come la racconterà Daphne du Maurier nel 1960, è la vita di un brillante ragazzo annientato dal mancato riconoscimento del proprio talento, e con una certa confusione tra realtà e fantasia. Angria rimarrà, secondo l’autrice inglese, “The infernal world of Branwell Brontë”[iv]. Un mondo infernale, cui la realtà tarda ad assomigliare.
Branwell firma alcune storie di questa narrazione collettiva, ma è più prolifica la sorella maggiore Charlotte: Elizabeth Gaskell, la prima biografa, riceve dalla famiglia Brontë l’intera collezione di volumi, piccoli e piccolissimi quaderni redatti dai fratelli Brontë nell’arco di circa quindici mesi[v]. Sono una ventina di volumetti dalle sessanta alle cento pagine, che attingono dalle letture, dalle chiacchiere tra fratelli e anche dai soldatini di Branwell: in questi si alternano poesie, finti giornali, drammi teatrale, racconti e romanzi, e perfino sei numeri di una rivista. È probabilmente la descrizione più accurata che possiamo avere sul divenire di una narrazione collettiva tra ragazzi, tra fratelli: gli studiosi vi trovano anche in nuce temi e personaggi che saranno poi tipici della maturità delle sorelle Brontë. Volendo, vi possiamo anche trovare stilemi e narrazioni tipiche di quelli che saranno il fantasy e la fantascienza.

Alcuni dei libretti redatti dai fratelli Brontë .
Trovo, personalmente, questo eccesso filologico forse un po’ morboso, e mi interessa poco. Come dicevo all’inizio, quello che mi interessa è il meccanismo della condivisione di storie.
In fin dei conti, quello che è accaduto ai giovani Brontë è eccezionale, ma anche quotidiano, là dove assomiglia alla memoria di tante infanzie: per questo ho voluto dare spazio ad altri soldatini, ad altri bambini, ad altri giochi.
Questi ragazzi avevano molto tempo, e l’hanno riempito con la creazione di storie; per farlo hanno sfruttato degli strumenti materiali (dei giocattoli) e immateriali (le letture, le discussioni che sentivano in casa, gli insegnamenti del padre). Perché il tutto potesse prendere forma hanno sentito il bisogno di dar vita a un continente, un luogo dove far nascere le storie, e si sono appoggiati alle forme narrative che conoscevano (fin nell’apparenza: i micro quaderni di Charlotte sono realizzati a mano ma come se fossero libretti stampati).
Le storie, in fin dei conti, non nascono, ma continuano.
Si condividono, perché è quello che chiede una buona storia, qualcuno cui raccontarla, e qualcuno con cui interrogarsi: e poi, soprattutto in una certa stagione della vita, si portano avanti, in maniera febbrile e intensa, in uno spazio che è proprio delle storie continuate, in una complicità che è tipica (ma non esclusiva) della fratellanza e dell’infanzia.