Il lavoro dell’editor rientra tra i mestieri circonfusi da quell’aurea di mistero che porta i più a chiedersi a che serva. Cosa fa un editor? A cosa serve? Ma serve in fondo?
Quando lavoravo per una prestigiosa casa editrice di Bologna, gli editor erano esseri mitologici, coltissimi, parlavano due o tre lingue, si aggiravano per gli uffici accompagnando Presidenti del Consiglio, Ministri, Professori Universitari, Intellettuali Sublimi che ai miei occhi di neolaureata e neoassunta potevano fare la stessa impressione di Dante in Paradiso.
Cosa facessero a parte scegliere i libri da pubblicare non mi era affatto chiaro. Erano i primi ad arrivare e gli ultimi ad andarsene, camminavano lievi per i corridoi, salutavano con un cenno del capo, sempre impegnati, sempre assorti, sempre “altrove”.
Io lavoro da casa, nel frattempo la realtà delle case editrici italiane ha decisamente perso (non solo ai miei occhi) quel misticismo che le ha sempre circondate e ormai so cosa fa un editor.
Principalmente io leggo. Certo, non una attività strana per chi si occupi di libri, in effetti. Ma è come leggo che fa la differenza.
Io lavoro come editor freelance e mi occupo, per lo più, di libri per bambini e ragazzi. Una editor freelance che cura un catalogo editoriale prima di tutto, come ho detto, legge. Legge libri editi, certamente e legge i progetti che arrivano alle case editrici per cui lavora.
Quando leggo un libro edito prevale in me il gusto e il piacere. Altri editor hanno operato quella scelta e io ritorno a essere l’appassionata lettrice che sono sempre stata.
Quando però leggo come editor, scatta in me altro. La lettura non è più solo un piacere della mente e del cuore, si fa selettiva, entra in gioco la memoria, entra anche quello sguardo verso la forma, che è fatto da un sostrato di un migliaio di libri letti e studiati. Entra in gioco il pensiero commerciale (potrà piacere ai lettori?), entra anche un pensiero complessivo verso il catalogo.
Partiamo dal catalogo: una buona casa editrice ha una cura maniacale verso il proprio catalogo, che è emblema, bandiera, filosofia della casa editrice stessa. Scorrendo il catalogo una persona esperta può leggervi tutto: la ricerca verso prodotti innovativi, la cura, la scelta di autori e illustratori, a volte si può capire se la casa editrice investe nei proprio autori, se ne ha interesse nel tempo, se pubblica tanto per pubblicare (c’è un perverso gioco del mercato che impedisce a un editore dalle medie dimensioni in su di pubblicare meno di 100 libri l’anno) o perché ha un progetto editoriale di lungo respiro.
Un buon editor manda avanti tutte le collane con misura ed equità, guardando al venduto, certamente, ma anche proponendo sempre una novità spiazzante e che si spera possa fare breccia nel pubblico.
Quando mi arriva un progetto che rientra in tutti i parametri che ho illustrato, sento una specie di brivido alla base della schiena. Vedo il libro finito, l’ho già in mente, lo visualizzo, lo colloco con altri libri della collana, so a chi potrà essere destinato, me ne innamoro. La passione in questo lavoro è fondamentale: un libro entra talmente tanto in connessione profonda con il nostro essere, che non si può mai rimanere indifferenti. Maneggiamo materiale vivo, umano. Il libro è scritto da un essere umano a noi simile, esce dalla sua creatività, dalle sue passioni, dalle sue emozioni, è materiale incandescente. E come tale va trattato: con profondo rispetto, con delicatezza, animati dalle migliori intenzioni.
Anche perché questo materiale vivo andrà poi adattato, spesso modificato, corretto, sostenuto, accompagnato. E come si accompagna una persona in un percorso di crescita (penso all’altro mestiere avvolto nel mistero che è la professione di psicoanalista/terapeuta) con rispetto e cura, così si farà con un progetto ancora in-forme che andrà ad assumere la forma di un libro stampato.
Dunque non leggo solo: una parte consistente del mio lavoro riguarda la relazione con autori e illustratori. Una relazione di grande stima reciproca, affetto, comprensione.
Qualche tempo fa mi sono definita una ostetrica, che aiuta a far nascere i libri. Partorire un libro ha tempi estremamente lunghi, dai nove mesi ai due anni, infatti.
Una delle cose che mi chiede più spesso chi si interessa del mio mestiere è come si fa, cosa succede nel processo di lavoro per far diventare un progetto iniziale un libro finito. Vorrei proporre un esempio pratico perché si capisca meglio.

Blu di Barba, di Barbara Ferraro e Srimalie Bassani, Bacchilega Junior 2017
Alcuni anni fa Srimalie Bassani propose a Bacchilega editore le sue illustrazioni della fiaba di Barbablù, realizzate sulla versione di Perrault. Le illustrazioni vennero acquisite e si pensò a come potessero essere utilizzate. All’epoca non ero ancora editor e a un certo punto le ricevetti in dote.
Non volevamo tradurre nuovamente la fiaba, già troppe versioni affollavano il mercato, era necessario proporre qualcosa di nuovo. Nel frattempo la collana Ristorie, dedicata alle storie e leggende del territorio romagnolo era rimasta ferma; pensai di proporre in questa collana le fiabe rinarrate, o fiabe inventate o rivisitate. Barbablù dunque ci rientrava perfettamente. Contattai Barbara Ferraro, esperta di fiabistica, grande conoscitrice di libri per bambini, che già mi aveva proposto suoi testi in prosa e in versi e le chiesi una ballata in rima a partire dalla fiaba di Barbablù.
Da quel momento si aprì un doppio lavoro: da una parte il testo, dall’altra le illustrazioni di Srimalie. Procedemmo insieme, cercando di capire come adattare al meglio il testo alle immagini e viceversa.
Infatti la ballata di Barbara aveva preso una direzione particolare che piaceva a tutte e Srimalie decise di modificare completamente le sue immagini, con una generosità rara. Lo sfondo che prima era rosso divenne blu, colore affidato al perfido e algido Barbablù, mentre rosso divenne il colore della moglie furba, il rosso colore del sangue ma anche del coraggio.

Prima versione rossa

Versione definitiva blu
Quindi un triplice adattamento: Barbara aveva lavorato sulle prime immagini di Srimalie, quando le immagini vennero modificate per adattarsi alla ballata, anche Barbara modificò il testo perché tutto si incastrasse alla perfezione (dell’efficace risultato finale, parla anche Carla Colussi nell’articolo Raccontare e leggere la paura).
La scena centrale di Blu di Barba, quando la sposa scopre la stanza degli orrori, ha subito diversi cambiamenti: nella prima versione il pavimento pieno di sangue dove sarebbe poi caduta la chiave non si vede. Avevo invece necessità che non ci potessero essere dubbi dove fosse caduta la chiave. Inoltre in questa prima immagine Srimalie, pensando alla sensibilità dei bambini, aveva messo davvero poco sangue. Trovavo geniale l’idea dei trofei di caccia, ma erano davvero troppo asettici. Nella versione definitiva la scena divenne terrificante e asfissiante: i trofei sono appesi semplicemente alla parete con il sangue che scorre fino al pavimento. A questo punto anche Barbara modificò il testo, lo asciugò e lo rese perfetto per la scena horror:
Bruno il pavimento,
ombrosa la stanza
la bocca spalanca
mentre di sopra si danza
la vista s’adombra di puro terrore
e l’errore, la chiave cade,
ecco l’errore.Raccogli la chiave e lucidala come stella, stolta sorella.
Prima versione
Il cigolio della porta
un lampo di luce che era lanterna.
Bruno il pavimento,
ombrosa la stanza,
la bocca spalanca
mentre là sotto si danza.

Versione definitiva
Un fine lavoro di cesello, dunque, ma anche fiducia reciproca, capacità di adattamento e sostegno al lavoro altrui.
Mi accorgo di avere spiegato parte del mio lavoro, perché molta parte è anche giusto che rimanga avvolta nel mistero. Di fatto, alla fine del lavoro editoriale, un editor sparisce, non ne rimane traccia se non (raramente) nel colophon. Il libro è del suo autore e del suo illustratore, come un bambino è della sua mamma e del suo papà, e del lavoro delicatissimo dell’ostetrica non rimane traccia.