Quando un regista decide di mettere in scena un’opera letteraria sa che dovrà fare delle scelte, scelte che sono delle sfide affascinanti.
Qualsiasi tipo d’intervento sul testo letterario è una “traduzione” e quindi un adattamento. Il lettore che legge, come sappiamo, trae dal testo ciò che esso non dice, ma sottintende; il lettore riempie spazi vuoti. Ovviamente le interpretazioni (o traduzioni, se volete) non sono infinite, ma questo è un altro discorso. Ma quando un regista decide di mettere in scena un’opera letteraria riempie quegli spazi vuoti, a modo suo.
La nostra possibilità interpretativa ha dei limiti? Secondo Eco nel “tradurre” da romanzo a film o opera teatrale, dovremmo parlare di adattamento o trasmutazione, perché “quando cambia la materia” (come recita il titolo di un capitolo del suo Dire quasi la stessa cosa) ci troviamo di fronte a un’opera altra. Vediamo che cosa accade quando un/una regista adatta un’opera letteraria o poetica per la scena. Perché spesso abbiamo la sensazione che “il libro sia meglio dell’opera teatrale (o del film)?”
In un’opera letteraria moltissime informazioni non ci sono date e noi compensiamo con tutta una serie d’informazioni che appartengono al nostro vissuto, alla nostra cultura e al nostro immaginario. Nel Il mago di Oz, Baum ci dice che lo Spaventapasseri aveva “la tesa fatta da un sacchetto di tela pieno di paglia e sopra ci erano dipinti gli occhi, il naso e la bocca…”, tuttavia nel leggere il romanzo io continuavo a vedere le fattezze di Donald O’Connor e lui avrei scelto in un ipotetico cast. Nello stesso romanzo, l’autore non ci dice se Dorothy sia riccia o liscia né se abbia i capelli biondi, mori o castani, ma un qualsiasi regista deve inevitabilmente fare una scelta. E sceglie per noi.
Questa possibilità di scelta è la grandezza e il limite dell’adattamento teatrale, perché scegliendo, compiamo un arbitrio interpretativo; arbitrio che se da una parte è alla base di quel non riconoscerci nella nuova opera, per cui spesso la “traduzione” non ci piace, dall’altro soprattutto nel caso di grandi registri apre a nuovi mondi e a nuova arte.
Il teatro di Carmelo Bene ne è un esempio, forse il più controverso e affascinante del Novecento. La sua interpretazione di Le avventure di Pinocchio è incredibilmente fedele e nello stesso tempo dissacratoria e assolutamente personale. L’assenza di scenografia, l’utilizzo della luce come creatrice di luoghi/spazi, ma soprattutto il tipo di recitazione, gridata e spersonalizzata apre mondi interpretativi del romanzo collodiano.

Carmelo Bene in Pinocchio
Il testo per Bene non può essere interpretato, deve essere ricreato dall’Attore Artifex che in ogni caso deve rifuggire il concetto di personaggio. Celebre è il suo Amleto che nega il testo, tanto che le battute di Amleto sono consegnate dallo stesso a Orazio, costretto a leggere parti non sue scritte su foglietti di fortuna. Nel testo originale, definito da Bene cartastraccia, sono inseriti pezzi estranei. Da notare che Bene non critica l’opera shakespeariana in sé, ma la sua messa in scena insterilita dal manierismo.
La parola in Bene è scarnificata e sganciata dal significato, diventa suono e proprio per questo apre a mondi interpretativi che rifiutano la semantica corrente, lasciando lo spettatore nudo e incapace di trovare interpretazioni. Il teatro di Bene non si traduce né si adatta a nessun linguaggio. È nudo e lascia nudi.
È un po’ tutto il teatro del Novecento che rifiuta il testo, considerato tiranno, e predilige lo spettacolo come performance, dove gesto, movimento, spazio e luci abbiano lo stesso valore. Il testo non ha più importanza di fronte all’esperienza sensoriale dello spettatore.
Questa forma di teatro estremizza la riflessione sull’adattamento da una materia all’altra. Il testo diventa un pre-testo, eppure in molti casi e per certi aspetti, si può senza dubbio affermare che è rispettato, perché seppur nel suo essere smembrato, ne resta l’essenza.
Il limite dell’adattamento teatrale è l’essere in grado di ri-proporre l’essenza. Quella sensazione di totale coinvolgimento che un’opera letteraria mi fa vivere, quell’esperienza totalizzante deve rivivere in scena. Non importa se ad Acab manca la gamba destra o la gamba sinistra, importa che il suo zoppicare sia ambiguo, misterioso e inquietante, perché così era il personaggio creato dall’autore.
Ma in ogni adattamento ci sono anche aspetti tecnici e pratici. Quando con una classe quinta primaria, qualche anno fa, su loro precisa richiesta, mettemmo in scena Le avventure di Pinocchio, che il maestro leggeva ad alta voce in classe, chiarii subito che avremmo messo l’opera completa e soprattutto in toscano dell’epoca. Accettarono la sfida.
Fu un periodo di grande lavoro, ma molto appassionante. Il primo problema da risolvere è un classico di ogni scolaresca: hai 22-25 bambini e, se ti va bene, 12 -15 parti. Poiché credo che il teatro a scuola sia un gioco bellissimo e avvincente, ma come tutti i giochi, molto serio, mi sono sempre rifiutata di dare a due – tre bambini la stessa parte (pratica che nel teatro non esiste!) quindi è stato necessario manipolare l’opera.
La grande sfida è stata creare delle nuove parti, senza tradire Collodi, quindi niente rimaneggiamenti della trama base. Abbiamo inserito dei personaggi nel teatro dei burattini di Mangiafuoco perché lì era plausibile che ci fossero altri personaggi dietro le quinte. Cercando tra le Maschere e dando a ognuna una piccola parte, immaginando verosimilmente che i burattini di Mangiafuoco ogni tanto, provassero i loro pezzi, abbiamo creato una scena in cui le Maschere recitavano dei pezzi della Commedia dell’Arte.

Illustrazione di Sergio, da Le avventure di Pinocchio
Non era sufficiente! Almeno sei bambini erano senza parte. Abbiamo creato una storia nella storia, immaginando che la storia di Pinocchio avvenisse sul palco come se fosse narrata da Lorenzini e dai fiorentini dell’epoca, sia alto-borghesi sia del popolo, questo perché l’opera collodiana è stata scritta, come si sa, a puntate e nonostante l’acquisto del giornale dei bambini avvenisse certamente solo nelle case borghesi, ritengo che se ne parlasse. Inoltre Lorenzini era persona conosciuta e le voci sui suoi supposti problemi economici dovevano essere oggetto di pettegolezzo. Tutto questo è stato inserito nello spettacolo, sfruttando le lettere che Collodi mandò al suo autore che lo sollecitava a inviagli altri episodi.
I fiorentini dell’epoca, interpretati dagli alunni, entravano dalla sala e si aggiravano tra il pubblico come se parlassero tra loro. Queste incursioni avevano il compito non solo di raccordare le scene là dove era stato necessario operare dei tagli, ma anche di restituire allo spettatore quell’immediatezza (oggi diremmo interattività) del romanzo collodiano, che spesso interpella il lettore, un po’ come fanno i contastorie.
Bella è stata anche l’esperienza dei costumisti. Un lavoro certosino (per quanto lo si possa fare a scuola) è stato fatto nella ricerca dei costumi. Abbiamo lavorato sulla postura e sulle camminate, letto descrizioni e consultato libri di storia della moda.
Un altro ostacolo poteva essere la lingua. Il toscano di Lorenzini era lontano dall’italiano un po’ romanizzato dei bambini di quella classe, ma abbiamo voluto divertirci anche nel cercare modi di dire e motti arguti del fiorentino ottocentesco e contemporaneo. Sono un’appassionata di dialetti e mi piace andare a piluccare espressioni gergali che leggo o ascolto. Loro li trovavano buffi, ma anche interessanti per suono e significato, tanto che spesso li andavano a cercare sul vocabolario.
È stata un’esperienza esaltante, che ha avuto tre grandi complici: un maestro innamorato di Collodi, una classe straordinaria e il buon Carlo Lorenzini, che non smette di stupirci.
Altra opera letteraria che ho messo in scena con i ragazzi almeno una decina di volte è Il fantasma di Canterville. Ne esistono versioni per il teatro, ma a me piace lavorare all’adattamento del testo narrativo originale.
In questo caso è stato necessario operare una vera e propria rilettura. I personaggi sono troppo pochi per dare una parte a ognuno. Anche qui l’adattamento è partito da uno studio dell’opera, dell’autore e dell’epoca. Abbiamo immaginato che ci dovesse essere almeno una servetta, oltre alla governante Mrs. Umney, e una cuoca, un giardiniere. Infatti non era infrequente che l’alta borghesia costretta a spostarsi per qualche tempo, accettasse la servitù del posto, se rispondeva alle sue esigenze. Siamo stati obbligati a inventarci dei personaggi, alcuni plausibili come il postino che deve consegnare una missiva ed è terrorizzato dall’idea di incontrare il fantasma, altri meno plausibili, ma, a mio parere, molto in linea con l’autore. Come le amiche americane di Virginia, ragazze moderne che parlano uno slang che il povero fantasma non capisce e lo trovano molto trendy… termine che sarebbe piaciuto a Oscar Wilde!
In questo caso l’adattamento è stato più radicale. Nonostante la trama sia rispettata, i personaggi base siano quelli e le battute siano quelle dell’edizione Einaudi ragazzi (con la traduzione di Giancarlo Sammito), tuttavia la creazione di nuovi personaggi e nuove situazioni sono il frutto di un’interpretazione personale, ma, a mio parere molto fedele all’autore.
C’è un altro aspetto che riguarda il teatro e l’adattamento ed è quella particolare capacità che ha quest’arte di rivolgersi a tutti, adattando i vari registri espressivi all’interno dello stesso spettacolo.
Penso ad esempio al teatro shakespeariano, al teatro sacro balinese e a quello indiano che, con le dovute differenze, si rivolgono al popolo inserendo personaggi comici che svolgono la funzione di tramite, anche attraverso intermezzi farseschi, “traducendo” ciò che accade in scena in un linguaggio accessibile oppure spiegandolo buffamente. In ambito novecentesco penso anche al teatro di strada dell’Odin teatret e del Living Theatre, che cercano il contatto attraverso la danza e il canto coinvolgendo il pubblico.

Odin teatret, 1974
E penso anche al Teatro di Figura, l’arte teatrale che utilizza pupi, marionette, burattini ombre o oggetti. Da sempre usa molteplici registri espressivi mettendo in scena grandi opere letterarie, come testimoniato nella fotografia di apertura di questo articolo, tratta dalla mostra I promessi in prova. Le marionette della Compagnia Carlo Colla e figli raccontano I promessi sposi (foto Virginio Gilberti).
Mettere in scena un’opera letteraria è una sfida affascinante perché, per quanto il regista e gli attori siano bravi e i personaggi e le scene siano proprio come li ha descritti l’autore, tu che guardi avrai sempre la sensazione che non era proprio così che te l’eri immaginato… però può andare bene, perché le emozioni che ti suscita sono le stesse.