Voglio cominciare da qui. Con un’immagine che è anche un ricordo. Con un’immagine che racconta molto più di quello che rappresenta. Si tratta di due signore anziane che ricamano dinanzi alla porta di casa. È un’immagine per me più che familiare; durante la mia infanzia trascorrevo molto tempo con mia nonna che aveva l’abitudine di uscire dopo pranzo con una seggiola sotto al braccio per raggiungere le amiche, che si davano appuntamento davanti alla porta di casa di una di loro. Una seggiola sotto al braccio e sotto all’altro il ricamo all’intaglio o il lavoro all’uncinetto o a maglia, a seconda delle stagioni.
Si sedevano in cerchio, in uno spicchio di sole, e lavoravano. E io non aspettavo altro, seggiolina sotto al braccio, perché era delizioso partecipare a quel rito, perché era la curiosità di ascoltare i loro racconti del passato o del presente, perché volevo imparare.
Loro ricamavano e raccontavano. Io ritagliavo e non potevo star meglio. Fogli di giornali, fogli di riviste, piegavo e ripiegavo e poi mezze lune, taglietti netti, triangoli, piccoli quadrati, doppi semicerchi, angoli smussati o effetto erba, con piccoli tagli simmetrici di forbici d’acciaio da sarta. Era un sovrapporsi di narrazioni e tecniche che portavano in una stessa direzione. Quella del ricamo, narrativa, di madre in figlia; quella della tecnica della sovrapposizione in trasparenza; quella del realizzare un oggetto che avesse in sé la sorpresa del risultato contrastante tra vuoto e pieno. Perché la tovaglia ricamata ad intaglio acquisisce forza e bellezza quando qualcosa di altrettanto bello o prezioso si intravede nei vuoti. Così i ritagli, i miei come quelli di generazioni di bambini (tecnica legittimata dalla teoria montessoriana), sono il prodotto di un processo tecnico/creativo e sorprendono al loro schiudersi, acquisendo un valore altro se retroilluminati con un abat-jour, se sovrapposti a un disegno, se appoggiati su un foglio bianco e pitturati, con i vuoti che tornano pieni e fanno il cambio coi pieni che diventano vuoti.
Così come un pezzo di stoffa diventa un oggetto di preziosa eleganza, un foglio di carta ottiene lo stesso risultato, ma più fragile, più esposto al logorio del tempo. Nonostante ciò, qualcosa si tramanda: il più antico lavoro di papercutting risale alla Cina del sesto secolo. Si tratta di un papercut circolare, caratterizzato da motivi geometrici e simmetrici.
L’origine della tecnica è ancora più antica di un paio di secoli. Da allora su carta di colore bianco, rosso o nero si ritagliava, si creavano immagini ricchissime per sottrazione e sovrapposizione (jiǎnzhǐ, Kirigami). Ma, così come per il ricamo tra le donne anziane di paese, si trattava solo di folk art. L’utilizzo più efficace era quello di decorare le finestre, le vetrate, sfruttando opportunisticamente l’effetto arricchente della luce. Non a caso in Cina c’è un tempo per creare questo genere di decorazioni, ed è il momento dell’anno con meno umidità nell’aria, così da evitare marcescenze e il deteriorarsi prematuro dell’opera. Peraltro l’atto stesso del tagliare simboleggia quello del raccolto, ogni ritaglio era materializzazione di una speranza, di un buon auspicio: quanto più ricco fosse stato tanto più lo sarebbe stato il raccolto.
Dal concetto di opera “artigianale” si passa però rapidamente a quello di opera d’arte quando il papercut si veste di stoffa narrativa o simbolica, oltre che decorativa. Per me che cerco la psaligrafia nei libri il passo verso Andersen è molto breve. Hans Christian Andersen sarà il mio ponte tra l’opera d’artigianato e quella d’arte. Che sia stato uno straordinario scrittore è più che noto, che fosse anche un abile ritagliatore di carta meno. Eppure nelle sue opere psaligrafiche si legge il tono e il timbro fiabesco cui ci hanno abituati i suoi testi.
Le forbici usate da Andersen sono state riutilizzate per la prima volta dopo la sua morte da una delle maggiori artiste di psaligrafia in occasione di una mostra tenutasi proprio nel museo a lui dedicato. Si tratta di Karen Bit Vejle, capace di creare storie meravigliose di carta e aria.
Perché il fascino della psaligrafia sta proprio nel riuscire a gestire con la stessa misura il vuoto e il pieno. L’effetto di sovrapposizione è straordinario. Nell’albo illustrato è una voce in più all’interno della narrazione, non solo testo e immagini ma anche vuoti che si fanno pieni e coprendo disvelano, suggeriscono, traggono in inganno, coprono per poi svelare e diventare altro, essere parte di qualcosa pur non avendo consistenza.
Non a caso molto spesso questi pizzi cartacei sono alberi, foglie, sottobosco, fiori. Nel gioco di vuoto e pieno entrano anche quello di luce e buio, bianco e nero.
Antoine Guilloppé ritaglia una giungla a laser, preziosa, che gioca sul mistero e la sorpresa, sull’attesa e la rivelazione, con levità ed eleganza. Noi lettori siamo in piena luce, nessuna ombra netta o frastagliata ci protegge, nessuna fronda di carta o sottobosco ci nasconde agli sguardi curiosi della foresta, mentre invece il nostro gioco è quello di scoprire ciò che non è esposto, e tutti i lati (bianchi o neri, in sovrapposizione o del tutto stesi), tutte le possibili letture che l’idea sforbiciata a laser ha impresso sulla carta.
Così come i fogli trasparenti e i ritagli di Sybille Schenker infondono alla storia di Hansel e Gretel un livello di mistero in più. Similmente accade in Cappuccetto Rosso che penetra in un bosco fitto di ritagli. Taglia la carta per dischiudere una prospettiva, taglia la focaccia la nonna, taglia la pancia del lupo il cacciatore.
Si libra in volo Akka, sfruttando l’aria che si intrufola nei ritagli, per portare Nils nei cieli lapponi, mentre un orso, tutto pieno, li guarda, sognante, con le zampe ben fisse in terra.
Dipinge con le forbici, Matisse, le sue gouaches découpés, sottraendo volume, leggero, si libra in volo. “Mentre le sue forbici correvano sul foglio, fantasticò su come deve sentirsi un uccello quando vola. E mentre ritagliava, Matisse si sentì come se anche lui stesse volando”.