La mamma ed io avevamo un rito. Una piccola abitudine tutta nostra che non riguardava i miei fratelli. Un piccolo gesto di cura che ci teneva legate anche se eravamo lontane. E se questo rito si compiva noi ci stavamo separando sicuramente.
All’arrivo a casa della nonna veniva scaricato dalla nostra auto ciò che mi riguardava e successivamente alla sistemazione nella mia camera con la mamma uscivamo, soltanto lei ed io, mano nella mano. Il percorso non era lungo ma a me sembrava eterno. Raggiunta la meta, il giornalaio, mentre i grandi si salutavano io indisturbata e con fare molto serio potevo scegliere il mio libro con le bambole di carta!
Erano libriccini grandi come un sedicesimo, le copertine in cartoncino, poco più pesante di un bristol, erano spesso a righe azzurre o lilla con piccoli disegni a fiori, qualche coroncina, e poi la bambolina stampata nel centro, la stessa che, in campo bianco, trovavi all’interno, fustellata da staccare con delicatezza con piccole mani esperte. E poi su carta normale, da ritagliare, il guardaroba!
Conditio sine qua non per poter essere definite paper dolls, dalla notte dei tempi, è infatti l’essere disegnate con un guardaroba assortito.
Non erano caricature di bambine o bambini, neppure bebè o bambine piccole. Erano esili ragazzine con un guardaroba elegantissimo e un po’ retrò.
Avevano abiti, alcuni sembravano dei costumi, veramente belli e perfetti per occasioni diverse. E poi cappelli dalle fogge diverse, alcuni parevano usciti dal guardaroba di una damina e cestini intrecciati pieni di ciliegie da appendere al braccio.
Il loro costo era irrisorio ma per me, bambina in età scolare, avevano un valore immenso. Il Corrierino dei Piccoli e il Miao completavano il mio bottino e colmavano l’assenza della mamma sino al successivo week end. Ma i tesori non finivano qui.
A casa, in concerto con la nonna, mi veniva regalata una rivista di arredamento, un pezzo di fondamentale importanza e ricchezza per il mio gioco: la dimora delle mie bamboline di carta! Tra fotografie che reclamizzavano letti, mobili guardaroba, sofà, oggetti di design tra i più trend del momento e dimore da mille e una notte animavo storie e bambole di carta alle quali donavo una vita, legami famigliari assortiti e una tridimensionalità inarrivabile altrimenti. Beatamente ignara del fatto che agli inizi del ‘900 l’illustratrice americana Sheila Young raggiunse popolarità immediata con la piccola Lettie Lane, la prima bambola di carta con un nome, un carattere, una famiglia, degli amici, dei domestici e un guardaroba per ogni occasione! Completava lo scenario lo storico catalogo dei Fratelli Ingegnoli: luogo di infinite passeggiate fiorite, di giochi, di raccolte, di quell’andare fuori per il mondo, un mondo colorato e profumato. I miei privilegi a quel punto erano terminati non mi restava altro che giocare!
Questa la premessa, un po’ intimista, per introdurre un gioco che ha origini antiche – i primi esempi di bambole di carta, così intese, con guardaroba al seguito, risalgono alla corte di Luigi XV tra quei giochi bizzarri, inventati all’epoca per intrattenere gioiosamente un pubblico adulto, quando non impegnato in complotti politici e intrighi amorosi, ricco e capricciosamente incline alla noia – che ha coinvolto più generazioni nel corso del tempo e che ha sfruttato tecniche tipografiche tra le più avanguardiste e pregiate, che si è fatto libro e anche per collezionisti, che ha segnato la storia del costume maschile, femminile e infantile e rappresentato dalla prima guerra mondiale e sino agli anni ’80 dello scorso secolo il gioco a più basso costo e creativo di sempre, ora puntualmente scomparso.
Ogni cammino genera proprie domande, ripercorrendo vie d’infanzia come adulte mi domando quanto questo gioco, le bambole di carta, abbia influenzato, pur inconsciamente, il percorso di una persona, io, che ha passato parte della sua vita a tagliare, incollare, selezionare tessuti, assemblare palette colori, scegliere bottoni, disegnare ricami e, da un certo punto di vista, vestire bambole.
E ancora, ma noi che siamo grandi e che decidiamo cosa devono leggere e come devono abbigliarsi i bambini così come con che cosa debbono giocare, siamo proprio sicuri che bambini e bambine non giocherebbero oggi con le bambole di carta?
Nel minuzioso e divertente lavoro dello spulciare tra i libri di casa, della biblioteca, chiedere memoria a cugine e cugini, andar per mercatini e gettarsi nell’immenso mondo online, Emily Winfield Martin balza alla mia attenzione. Nota in Italia per La tua vita sarà meravigliosa nella traduzione di Marinella Barigazzi per ApeJunior, con lo pseudonimo di The Black Apple’s, pubblica nel 2010 in America Paper Doll Primer, prima risposta alle mie domande.
Sebbene con molte sovrastrutture che tolgono un po’ di creatività al gioco, suggerendo troppo, ma perfettamente in linea con la tradizione degli album di bambole di carta dei primi del ‘900, cosa che rende molto appetibile il libro, in Paper Doll si trovano ben 20 bamboline di carta da ritagliare o fotocopiare. Sono ragazzini e ragazzine in sottoveste, canottiera e slip o boxer e t-shirt, comunque in abbigliamento intimo e calzetti, rigorosamente in bianco su corpi variamente colorati – perché anche la pelle ha le sue sfumature in rosa o in giallo se chiara! Hanno nomi, caratteristiche caratteriali e fisiognomiche ben distinte, interessi accessoriati in modo differente e vario, personalizzabili con pettinature differentemente coiffeurizzate, colore degli occhi e dei capelli diversi e, a piacimento, con dei tatoo.
A Emily Winfield Martin non sfugge nulla, sicuramente il suo gioco è ricco e divertente, replicabile e personalizzabile, nulla vieta a nessun bambino o bambina, anzi sono invitati dall’autrice a farlo, la possibilità di cambiare identità, mischiare, riassegnare oggetti, nomi e personalità o di delinearne di proprie, così come per colori e pattern per decorare il guardaroba per esempio di ogni bambola di carta, maschio o femmina che sia, magari ridisegnandolo su un foglio bianco per poi ritagliarlo e senza dimenticare le alette naturalmente!
Curiosa, sebbene si trovino anche nel passato, la presenza di Hazel + Olive, con quel ‘più’ posto tra i due nomi non a caso, trattandosi di gemelle siamesi con due teste, due braccia, e quattro gambe. L’una con i capelli lunghi intrecciati, l’altra corti a caschetto a sottolineare quell’ individualità negata in natura.
Ma qual è la caratteristica che collega questo album di bambole di carta a quelli del passato e all’origine del gioco, oltre al fatto di regalare momenti di vita felice a chi ha la grande fortuna di potervi giocare.
Con tutte le sue narrazioni – colori, pattern, accessori, acconciature, nel disegno descrittivo degli abiti, nelle sovrapposizioni degli stessi, nella façon, come direbbero i francesi, Emily Winfield Martin parla di un tempo, il nostro.
In altre epoche le bamboline di carta, e ce ne sono state in ogni tempo e in tutto il mondo, hanno reso alla storia lo stesso servizio, son state per gli storici una fonte inestimabile di informazioni sulle culture del mondo, sugli usi, sui costumi. La storia del costume è la storia dell’uomo, della sua resistenza, del suo ingegno e la storia dell’arte ne è la narrazione. Quante cose racchiude un gioco così semplice e solo apparentemente povero: storia, storia del costume, moda e arte.
Joëlle Jolivet nel suo albo dal grande formato, Costumes, Éditions des Grandes Personnes, Parigi 2013, conduce un attento studio sull’abbigliamento nelle diverse epoche e civiltà utilizzando grandi figurine, grandi persone, come bambole di carta, catalogando con pazienza e puntualità da archeologo pitture del corpo, armature, abbigliamento sportivo, abbigliamento nuziale, scarpe, cappelli e quant’altro, essenzialmente un intero guardaroba che passa attraverso epoche differenti, modi di vita a differenti latitudini, come potrebbe essere il guardaroba di casa stipato in armadi da generazioni differenti. Joëlle Jolivet gioca poi con la meraviglia: veste le sue grandi figure dal bordo nero così marcato. Le veste, oltre che di fascino, anche a strati come nell’esempio degli Inuit du Cuivre del Canada del XX secolo, utilizzando un’aletta, ma anche due sovrapposte, vestendo da sotto a sopra, con un concetto non lontano da quello della bambola di carta e del senso del suo gioco.
La storia di ciò che l’uomo, la donna e i bambini, questi a partire dalla seconda metà del 1800, hanno usato per coprirsi e andare per il mondo è la storia dell’avvento della moda. Come Joëlle Jolivet i giornali femminili dell’epoca trovarono nelle bamboline di carta delle testimonial perfette per illustrare minuziosamente e pubblicizzare i raffinati modelli che uscivano dalle maison della Haute Couture francese, prima fra tutte quella di Charles Frederick Worth sarto, creatore di modelli talmente raffinati e complessi da far risalire a lui la nascita e l’affermazione in età moderna dell’Haute Couture.
Con l’industrializzazione, le nuove tecnologie, la stampa a basso costo, si diffuse prestissimo l’usanza da parte dei giornali femminili di regalare set di bamboline di carta che reclamizzavano i migliori modelli dell’epoca. Idea già sfruttata nel secolo precedente da alcuni artigiani e commercianti tra i più ricchi per pubblicizzare le meraviglie delle proprie botteghe.
Ogni epoca, ogni re e regina per il tempo del loro regno ebbero testimoniato con le bamboline di carta il loro stile nel quale si leggeva anche quello politico di condurre un popolo. Rivoluzionario fu lo stampatore e illustratore Raphael Tuck che regalò alle sue bamboline di carta e al loro guardaroba, tra il 1870 e il 1890, un retro altrettanto bello e decorato, una tridimensionalità ma anche l’affermazione di esistere a tutto tondo e non solo di facciata. Esigenza sentitissima da Jeremy Scott, direttore artistico di Moschino, che, qualche secolo dopo, per sottolineare la pochezza del momento storico e sociale attuale, che bada solo alla facciata senza andare mai oltre, manda in passerella per la primavera estate 2017 indossatrici come paper dolls in finti abiti bianchi dalle macro alette, stampati solo sul davanti.
Potrebbe essere questa la risposta alla prima domanda? Se lo è, il percorso è stato del tutto inconscio. La matassa si è dipanata nel corso di una vita e la trama disegnata da una navetta invisibile tesseva con un filo logico ma simpatico come quell’inchiostro magico e birichino. Oggi i cataloghi fatati dei Fratelli Ingegnoli si trovano online, le bamboline di carta non possono più passeggiare tra le rose più rare e difficili da coltivare o sui quei verdissimi prati all’inglese desiderio di qualsiasi giardiniere di ogni epoca! C’è comunque sempre un canale ricettivo aperto ed emotivamente attivo a cui piace muovere a commozione la mia bambina interiore e che non manca di materializzare improvvisamente ai miei occhi meraviglie di cui mi avvarrei sicuramente se potessi giocare ancora.
Non è magnifico, in un periodo in cui il cibo è design e il salumiere un turnista impiegato in un grande magazzino, trovare in libreria un libro-gioco come Faites votre marchè, così retrò nelle illustrazioni di Nathalie Parain che per le bamboline di carta rappresenterebbe un fuori cittadino con botteghe dove recarsi a fare acquisti assortiti per poi rincasare e lasciare che i più piccoli – tra le bamboline di carta – giochino sereni nella loro cameretta, in quell’incredibile pop up di Gérard Lo Monaco che è Il libro dei giochi di carta edito da Corraini Edizioni?
Io credo di sì.